L'inverno del nostro scontento
3 Aprile 2013

L’Italia analfabeta e la scuola

di Girolamo De Michele | 8 min

Avevo promesso di parlare di scuola, e comincio oggi a mantenere la parola data. Lo spunto viene da un articolo di Simonetta Fiori pubblicato su “la Repubblica” lo scorso 29 marzo, I nuovi analfabeti, e una Intervista a Tullio De Mauro del 2012 (per leggerli basta cliccare sui loro titoli). I due testi hanno in comune l’analfabetismo, o “illetteralismo”, degli italiani; in particolare, quello di Fiori prende le mosse da una serie di recenti ricerche sulle capacità di lettura, riassumendole. Non si tratta di un tema nuovo: almeno dal 2000 vengono svolte inchieste sulle capacità di lettura e comprensione, che comparano i risultati ottenuti in diversi paesi. Per quel che riguarda l’Italia, la costanza di alcuni esiti nel corso degli anni, all’interno di inchieste diverse sia per fini che per metodi, ci permette di considerare affidabili e oggettivi i risultati, che vi sintetizzo. Una precisazione: qui non si parla di ignoranza, ossia il non conoscere (ad esempio) il numero delle regioni, i nomi dei presidenti della Repubblica Italiana, le leggi razziali del 1938 o i confini del Marocco (ci sono carriere politiche iniziate affermando che a Ferrara fino al 1943 gli ebrei “se la passavano bene” e le leggi razziali erano “applicate all’italiana”, e finite col dichiarare che una pregiudicata minorenne del Marocco era nipote del presidente dell’Egitto, che col Marocco neanche confina – ma questa è un’altra storia). Qui si parla di analfabetismo di ritorno: la perdita di capacità che erano state acquisite a scuola, e che sono state dimenticate. Un analfabeta di ritorno è un cittadino che non sa riassumere, né comprendere, un testo semplice dopo averlo letto: un articolo di giornale – non un romanzo, o un saggio specialistico; oppure, non sa leggere né operare all’interno di grafici e schemi matematici elementari: l’orario ferroviario, il bollettino di conto corrente, la dichiarazione dei redditi. Come fa a comprendere l’articolo di giornale, un analfabeta di ritorno? Mette insieme il titolo e la conclusione, senza alcun controllo sul valore dell’argomentazione, e tanto peggio per la logica (ma tanto meglio per “giornalisti” – absit injuria verbis – come Feltri, Belpietro, Sallusti, Giordano). Come farà a capire qualcosa, quando si parla di crisi economica o quando gli propongono l’acquisto di titoli finanziari o bancari? Non capirà, e si fiderà alla cieca di chi gli spaccia per pensione integrativa un titolo Parmalat, un bond argentino, la fontana di Trevi. Farà fatica a sintonizzare il decoder, a interagire in modo complesso con gli altri, avrà difficoltà a fornire prestazioni di alto livello qualitativo, e soprattutto potrebbe non riuscire a riconvertirsi in un diverso ruolo in caso di perdita del proprio lavoro. Più di un terzo degli italiani è in questa situazione; un altro 30% sa compiere queste operazioni, ma rischia di perdere questa capacità: assommati, abbiamo un 65% di cittadini (una media molto più alta di quella europea) al disotto delle competenze minime necessarie per orientarsi nella società dell’informazione. All’opposto, la fascia di cittadini in grado di comprendere un testo complesso – un grosso libro, un saggio specialistico, un testo tecnico di cui bisogna apprendere le basi cognitive o che incrocia parole, grafici, numeri: quei cittadini che sono in grado di costruirsi una competenza reale su un argomento (ad es. la crisi economica globale, l’apprensione di una nuova lingua o di un linguaggio informatico, ecc.) partendo da zero. Quanti sono? Tra il 6 e il 9%, rispetto al 15-20% della media europea. C’è di che essere seriamente preoccupati (e infatti io lo sono): a questo divario di alfabetizzazione rispetto all’Europa corrisponde infatti un comprensibile divario digitale (digital divide) tra chi sa e chi non sa fare operazioni complesse con i computer.

A questo punto, verrebbe spontaneo concludere che la scuola ha le sue responsabilità, che è alla base della società analfabeta, che è ovviamente tutta colpa del ’68 che ha distrutto una scuola che una volta funzionava, che bisogna tornare indietro alla scuola del latino e della matematica. Che è tutta colpa dei professori e dei loro sindacati: e soprattutto di don Milani, quel prete che pretendeva di insegnare a leggere i contratti di lavoro ai figli dei contadini analfabeti della Toscana (riuscendoci, per inciso). Inutile stupirsi: uno dei segni di una debole alfabetizzazione è non saper istituire delle reali connessioni di causa ed effetto tra argomenti, e collegare cose che vanno in parallelo come se fossero l’una la causa dell’altra: soprattutto se ti tengono nascoste informazioni essenziali.

Per fortuna, le stesse inchieste di cui sto parlando permettono, attraverso la scomposizione delle fasce d’età, di descrivere la scuola prima e dopo il 1968. Vediamola, questa scuola pre-Sessantotto. Tra coloro che, quale che fosse il titolo di studio acquisito (licenza elementare o laurea), hanno studiato prima del ’68 la percentuale di analfabeti di ritorno (relativamente ai testi scritti) non era del 35%: era del 63%! E la fascia di eccellenza era non del 9, ma dell’1.9% (con qualche leggero miglioramento nell’apprendimento della matematica). Voi direte: e allora perché di quella scuola che produceva tanti analfabeti si sente parlare sempre bene? Perché, il più delle volte, a parlarne bene sono quell’1.9% di istruiti che se la cantano e se la suonano da soli.

Prendiamo adesso la fascia di età di chi, quale che sia il titolo di studio acquisito, ha cominciato a studiare alla metà degli anni Settanta, nell’ormai affermatasi scuola del ’68. Gli analfabeti di ritorno scendono a un quinto abbondante della popolazione (attorno al 20-22%, con punte del massime 27% e minime del 18%); e la fascia d’élite supera il 10%, con punte del 14%. Il quadro negativo che vi illustravo all’inizio dell’articolo è quindi il risultato di una media tra le diverse generazioni.

Cosa vuol dire? Che – e lo confermano altre indagini, delle quali si preferisce non parlare – la scuola italiana, per dirla con le parole di De Mauro (è una video-intervista su YouTube del 2008), «il suo dovere lo fa, più o meno bene. Non benissimo, perché ha a che fare con quelle fasce di popolazione nelle cui case non entra mai un libro. Soltanto il 20-21% degli italiani ha in casa più di cinquanta libri: cioè, ha dei libri in casa. Gli altri cos’hanno? L’elenco telefonico, la guida turistica del posto, il ricettario della nonna e poc’altro». Cos’ha significato “fare il suo dovere”? Cominciare ad abbattere l’analfabetismo, allargare l’area di quei cittadini che la cittadinanza sono davvero in grado di esercitarla. E questo, è comprensibile, ha dato molto fastidio. Perché non è riuscita a fare di più? Perché si è scontrata con una serie di ostacoli: l’eredità del passato, rispetto a paesi europei che l’analfabetismo, grazie alla Riforma protestante o all’Illuminismo, l’hanno abbattuto nel 6-700; la scarsità di biblioteche e librerie, cioè di libri a disposizione (un italiano su 5 vive in un piccolo paese in cui non c’è alcuna libreria); delle forme di analfabetismo che sono tipiche delle società del benessere (col preoccupante aumento di analfabetismo e illetteralismo nelle fasce sociali e nelle regioni benestanti del nord-est). E soprattutto, con la diffusione, a partire dagli anni Ottanta, di una cultura dell’ignoranza, del disimpegno, della volgarità attraverso lo strumento televisivo: la televisione che aiutava la scuola con programmi didattici, che supportava la cultura con gli spettacoli teatrali e gli sceneggiati letterari in prima serata, che contribuiva a squarciare i muri di gomma con le inchieste giornalistiche (una fra tutte: quella su Ustica, di cui si torna a parlare proprio in questi giorni), è stata sostituita dalla televisione tette-e-culi, col salotto al posto del teatro, il disimpegno al posto della cultura, il Gabibbo e le veline al posto dell’informazione. Sarà un caso, ma i due artefici di questa televisione, Maurizio Costanzo e Antonio Ricci (l’autore di Drive In e di Striscia la notizia), sono stati, e sono, amici e consiglieri sia del centro-destra che del centro-sinistra – e anche, Ricci, di Beppe Grillo.

Per continuare a combattere questa battaglia ci sarebbe stato bisogno, accanto a una società con più biblioteche pubbliche, più librerie piccole e indipendenti, più teatri, e più cultura e informazione in televisione, di più scuola: visto che la scuola il proprio lavoro lo sapeva fare. E invece abbiamo avuto meno ore di lezione, meno materie e meno insegnanti. E meno soldi, sia alle scuole che agli insegnanti. Tutta colpa dei soli ministri di centro-destra, di Moratti, Aprea e Gelmini? No di certo: perché i ministri di centro-sinistra Fioroni e Profumo (e Bastico, Ghizzoni e Puglisi) hanno lasciato tutto come l’hanno trovato, quando non hanno avallato, o cercato di far passare “da sinistra” le proposte della destra. A vantaggio di chi? Per avere una risposta, chiedetevi a cosa serve la scuola – a ridurre le diseguaglianze sociali, ad appianare gli svantaggi legati all’origine famigliare, a diffondere il sapere, ad allargare le menti e le coscienze, e avrete le risposte. In primo luogo, a vantaggio di chi non voleva, e non vuole, che i cittadini pensino con la propria testa: al massimo è concesso loro di cambiare la testa con la quale devono pensare e dalla quale devono farsi dire cosa è giusto e con non non lo è, ma pensare con la propria testa no.

Per ora concludo ricordando che ci sono analisi statistiche (ad es. Daniel T. Haile, Wealth Distribution, Lobbying and Economic Growth, 2005) che dimostrano l’esistenza di un legame di causa ed effetto tra bassa alfabetizzazione, bassa capacità produttiva del cosiddetto sistema-paese e alto grado di corruzione nelle pubbliche amministrazioni. Così come ci sono studi (ad es. quello di Robert J. Barro e Jong Wha Lee, Quanto conta l’istruzione?, 2010) che dimostrano una stretta correlazione tra la crescita dell’istruzione e la crescita dei redditi pro-capite e del Pil. Far crescere il livello di istruzione, dimostrano Barro e Lee (che hanno esaminato dati su un arco di 60 anni per 146 paesi) è una strategia che produce benefici nel breve e nel lungo periodo non solo per gli individui ma anche per le società; non solo si valorizzano le risorse umane, ma si avvia un circolo virtuoso che produce vantaggi in varie direzioni: rallentamento della crescita demografica, riduzione dei conflitti, rispetto dei diritti umani e dell’ambiente. Chissà se qualcuno dei “saggi” incaricati da Napolitano se lo ricorderà…

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