L'inverno del nostro scontento
24 Marzo 2013

Nero dentro: omaggio a Pietro Mennea

di Girolamo De Michele | 5 min

Questo blog rende omaggio a Pietro Mennea, “la freccia del Sud”, ricordando non le sue vittorie, ma le sue parole. Le sue, e quelle di altri che hanno a che fare con Mennea.

Pietro Mennea (che nella vita ha conquistato, oltre a tanti successi sportivi, 5 lauree) è stato un educatore: «In Italia non si fa più sport, quello sport da usare come mezzo di educazione integrale. Ormai si è convinti che lo sport diseduchi ed invece è tutto il contrario: serve a educare il carattere, il temperamento, le intelligenze», ha detto alla sua morte Carlo Vittori, il suo allenatore.

Nelle scuole tanti colleghi (soprattutto, ma non solo, di educazione fisica) continuano ogni giorno la battaglia di Pietro Mennea, Carlo Vittori e Alessandro Donati, con immaginabili difficoltà: non è facile trovare un medico sportivo disposto a parlare di doping. Di sicuro è meno facile di quanto non fosse, ai tempi d’oro, vedere Conconi invitato a parlare nelle scuole: e nessuno si è mai scusato, dopo, per averlo invitato. Non è un caso che il libro d’inchiesta di Giuseppe D’Onofrio Buon sangue non mente (minimum fax, 2006) sia quasi sconosciuto, che il libro-denuncia di Alessandro Donati Campioni senza valore (Ponte alle Grazie, 1989) sia scomparso dalle librerie (per leggerlo lo si deve cercarlo in rete), che il romanzo sul doping di Saverio Fattori Acido Lattico (Gaffi, 2008) sia passato quasi inosservato. Purtroppo Mennea è stato sconfitto: il doping ha vinto non solo nei muscoli, ma anche nelle lingue, nelle parole, nelle menti. E quindi nella politica e nella società. Che gli alchimisti e gli apprendisti stregoni abbiano vinto è un fatto: non è una buona ragione per smettere di combatterli.

 

«Proprio vero che qui bisogna morire per vedersi restituiti gli aggettivi, la considerazione, il rispetto, l’amore, tutte cose negate o razionate in vita». Gianni Mura su Mennea, 22 marzo 2013

 

«In California incontrai Muhammad Ali che per me è sempre Cassius Clay. Mi presentarono come l’uomo più veloce del mondo. Lui mi squadrò sorpreso: “Ma tu sei bianco”. Sì, ma sono nero dentro». Pietro Mennea, 3 giugno 2012»

 

«Quello della Silicon Valley [Steve Jobs, nel famoso “discorso di Stanford” del 2005], quello che ha detto che bisogna essere affamati e folli [Stay hungry, stay foolish], mi fa ridere. Noi non avevamo niente e volevamo tutto. Eravamo cinque figli, quattro maschi e una femmina. Mio padre Salvatore era sarto, mia madre Vincenzina lo aiutava, a me toccavano i lavori più umili: fare i piatti, pulire la cucina, lavare i vetri. Avevo tre anni quando mamma mi mandò a comprare un bottiglione di varechina che mi si aprì nel tragitto, porto ancora i segni sulle mani. Papà veniva da una famiglia di undici figli, due si erano fatte suore, non c’era da mangiare a casa. Quando ho iniziato a correre i calzoncini me li cuciva lui. Oggi non mi entrano più, nemmeno al braccio, ma li tengo ancora. Le prime scarpe da gara le ho prese più grandi, dovevo ancora crescere, sarebbero durate. La tv non la tenevamo, si andava al circolo degli anziani, era su un baldacchino, pagavamo 50 lire per vederla. Ce l’avevo la rabbia dentro, eccome». Pietro Mennea, 3 giugno 2012

 

«Convegno in Germania sulla velocità. Metà anni Ottanta. Parlo del mio training: 25 volte i 60 metri, 10 volte i 150 metri. Gli altri tecnici sbigottiti: ma se i nostri atleti al massimo fanno 6 volte i 150. E lì che ho capito che il doping aveva vinto: come facevano ad allenarsi tre volte meno di me e ad ottenere risultati?» «Non ci sarà più un record come il mio, non in Italia, e non perché non possano nascere campioni. Ma oggi c’è una società e una morale diversa, che rifiuta tutto quello che io ho rappresentato. Io allenavo la fatica con l’allenamento». Pietro Mennea, 3 giugno 2012

 

«Mi sono creato tante inimicizie nella mia lunga carriera per avere sempre messo davanti a tutto il fatto di raggiungere i propri obiettivi con mezzi puliti. Tutto questo, mentre il mondo a cui appartenevo celebrava falsi campioni in odore di doping». Pietro Mennea, 17 marzo 2006

 

«Gli imputati per alcuni anni e con assoluta continuità hanno fiancheggiato gli atleti nella loro assunzione di eritropoietina, sostenendoli e di fatto incoraggiandoli nell’assunzione stessa, con la loro tranquillizzante e garante rete di controlli dello stato di salute, di esami, di analisi, di test, tesi a valutare ed ottimizzare gli esiti dell’assunzione in vista dei risultati sportivi, quindi realmente interagendo nel “trattamento”, favorendolo, come a loro contestato, nonché, logicamente, fornendo tutti i supporti logistici atti a prolungare nel tempo l’assunzione di eritropoietina. Pertanto sussiste in punta di diritto il reato [di frode sportiva] così come a loro contestato». Motivazione della sentenza del 19 novembre 2003 di assoluzione per prescrizione dal reato di frode sportiva a carico di Francesco Conconi e dei suoi collaboratori Giovanni Grazzi e Ilario Casoni

 

«Nell”84 lo sport italiano cominciò ad ottenere grandi risultati nel sollevamento, nella discipline di potenza e di resistenza, fondo, maratona, pentathlon. Conconi divenne il dio, ottene 400-700 milioni l’anno di finanziamento Coni, quando io che appartenevo al settore velocità che aveva dato 32 medaglie allo sport azzurro andavo avanti a 30 milioni l’ anno lordi. Gente sconosciuta iniziò a fare prestazioni straordinarie, vecchi di 35- 40 anni iniziarono a vincere. Molti atleti cominciarono ad aumentare di peso, più di sei chili l’anno, che per un adulto è una crescita muscolare impossibile da un punto di vista fisologico. Davanti a questo indice lo sport avrebbe dovuto dire: attenzione, c’è qualcosa che non va, testerò gli atleti ogni 15 giorni. L’atletica istituì un processo contro di me, dissero che ero un terrorista, che esageravo nel vedere droga ovunque, che esageravo mettendo in testa ai ragazzi che il doping era terribile. Ma soprattutto furono vigliacchi e vili in una cosa: nello spargere i dubbi, nel convincere i ragazzi che tutti gli altri lo facevano, che chi si rifiutava sarebbe rimasto indietro. Distrussero ogni illusione e ogni convinzione. La frase tipica era questa: credi proprio che quello non faccia niente? Ma la cosa che più mi fa male è che invece di lavorare alla costruzione di un atleta si è lavorato sulla frustrazione personale di chi non ce la faceva, di chi si è attaccato a qualsiasi brandello di pseudoscientificità pur di arrivare primo. E così hanno costruito dei campioni di debolezza». Carlo Vittori, 29 ottobre 2000

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