Blog
1 Febbraio 2013

Nel frattempo il cielo sa come sono andate le cose…

di Francesca Boari | 8 min

9.

Forse sono solo le cinque o le sei ma non credo sia più tardi. Sento gli uccellini del mattino, delle prime ore, cinguettare, invitando al risveglio. Non riesco ad aprire gli occhi, vorrei prendere tra le mani il cellulare e guardare che ora è, ma è come se mi mancassero del tutto le forze. Mi sento sfinita, azzerata, annientata, anche le gambe sono come macigni, eppure ho preso sonno alla solita ora.

Cosa mi succede? Non capisco, è come se qualcuno mi avesse immobilizzato e da qui non potessi più muovermi, non dovessi, cerco la forza in qualche zona remota del mio corpo per vedere se ci sei, se sei tra le coperte del tuo letto. Non riesco. E allora sento un lieve rumore come di una porta che si socchiude e questo mi basta a girarmi e ritornare al sonno.

Ma non è il sonno di sempre, è una sorta di letargo profondo che mi protegge dalla veglia, che mi chiude nel profondo per difendermi da forze oscure, malvagie, che ancora ignoro.

Sono le otto, tutto si accende della luce solita del giorno che entra nella nostra vita, nel nostro tempo. Eppure mi sento come un involucro senza forza, cui è stato rubato qualcosa di vitale, di essenziale. Mi hanno tolto qualcosa? Derubata dell’ossigeno, dell’aria… entro nella tua stanza, ad accogliermi non trovo il rassicurante respiro pesante della gioia di esserci ma il vuoto, quel letto non disfatto, non scomposto, terribilmente in ordine. Capisco che non sei mai rientrato, e allora dove sei figlio mio?

Tuo padre è già incazzato, pensa che chissà quale stronzata hai combinato, e sennò perché non telefoni?

E allora guardo il telefono perché una chiamata, un messaggio tuo ci sarà pure, che so, mamma sto fuori, dormo da, non aspettarmi, non preoccuparti. Lo sai l’ansia che mi assale, mi invade tutta, anima e corpo, quando so che sei fuori la notte, il giorno… sei stato tu a dirmi di smettere con quella storia dei messaggi ogni ora, e sono arrivato e sto partendo e tra poco rientro.

E allora io cerco di smettere perché non voglio soffocarti figlio mio, voglio imparare a lasciarti andare per la tua strada, aiutarti a rafforzare la sicurezza, la certezza che un giorno dovrai pur fare tutto da solo.

E sul telefono non c’è traccia di te. Non c’è traccia di qualcosa che mi restituisca la vita in questo momento che mi manca tutto e barcollo tra un equilibrio stentato e il lasciar correre la tua noncuranza, come se niente fosse. Non ci riesco, so che sai delle mie paure, forse io non riesco a capire le tue, ma tu le sai le mie e le rispetti. E allora perché? Perché non ti trovo su questo fottuto cellulare e non ti trovo in stanza e non ti sento vicino, al sicuro? Perché?

Ti chiamo subito e non azzardarti a non rispondere o peggio ancora ad avere il cellulare spento. Non lo fare perché se non ricomincio a respirare tu mi prendi la vita e me la schiacci, figlio mio, me la porti lontana e i miei occhi soffocano in lacrime compresse perché tuo fratello non colga la mia fragilità di donna, di madre.

Rispondi Federico, dove cazzo sei? Federicooooo!!!

Non rispondi. Lino chiama, ti prego, è successo qualcosa. No, Federico non mi abbandonerebbe in questa assurda angoscia. Chiama, sono sicura che a te risponde.

 

«Chi parla?».

 

Come chi parla? Ma chi sei tu che rispondi al cellulare di mio figlio, porca puttana!

 

«Sono il padre di Federico. Lo stiamo cercando. Con chi parlo?».

«Sono un agente, abbiamo trovato un cellulare sulla panchina all’ippodromo, stiamo facendo delle verifiche. Mi descriva suo figlio».

 

«Mio figlio è un ragazzo bellissimo, pieno di vita, con gli occhi di suo nonno e le sopracciglia folte folte, le labbra rosa. È bello come il sole, come una sinfonia di Mozart. È la gioia, è la vita».

 

«Cosa indossa?».

 

Abiti di seta leggera e ali di angelo, impossibile non riconoscerlo. Andiamo agente, sta lì, di fianco a lei e la sta ascoltando. Non faccia finta di niente. Si giri, lo guardi quell’ultimo respiro che aleggia intorno alla sua fottuta burocrazia e me lo dica che mio figlio è sopra di lei e dentro la sua coscienza, il corpo lacerato, distrutto, devastato dalla rabbia, dall’odio.

 

«Va bene, va bene, vi chiamiamo noi, non appena abbiamo notizie».

 

Notizie?

Ma quali notizie, Federico è lì, ha sentito tutto e non te lo perdona di non avere avuto il coraggio di dire due parole vere, solo due, ma vere.

 

«Ha riattaccato Patrizia, non so, sembrava strano, mi ha fatto tante domande, non capisco».

«Lino, dobbiamo cercarlo, o vai tu o vado io. Non chiedermi di rimanere ferma ad aspettare. È successo qualcosa».

«Cosa vuoi che sia successo? Avrà combinato qualcosa altro, una delle sue cazzate, dimenticato il telefono. Ecco perché non ci chiama. Vuoi che chiamiamo l’ospedale?».

«Basta che fai qualcosa, non sopporto l’attesa. Lino chiama, ti prego».

«Mamma, intanto io vado, mi muovo, faccio un giro in bici e vedo se riesco a capire cosa può essere successo».

«Va bene, vai e appena sai qualcosa chiama. Per favore Stefano, non sparire anche tu».

«No mamma, faccio presto, prima che posso».

«Noi proviamo a chiamare anche i ragazzi, forse si è fermato a dormire da loro».

 

Mi sembra di impazzire anche se in realtà non ho motivo di pensare che sia accaduto qualcosa di irreparabile, l’ospedale non ha segnalazioni, la questura nemmeno, nessuno chiama.

È straziante stare ad aspettare che qualcuno mi dica Federico sta bene, che non gli è successo niente, che ha semplicemente dimenticato il telefono su una panchina e si è fermato a dormire da un amico, che non si è sentito bene. Eppure tu dovresti chiamare, farti prestare un fottuto telefono e farci sapere che stai bene. E sono sicura che se potessi lo faresti, per questo non mi do pace.

Stefano è rientrato. Niente.

Lino continua a chiamare. Niente.

Io non riesco più a stare in piedi e così mi distendo a terra nella tua camera. Chiudo la porta e piango. Sono ancora nell’attesa, snervante ma sempre attesa e ancora non conosco la disperazione alla quale questa lascerà il posto nel momento in cui avrò preso coscienza della tua inspiegabile, assurda uscita di scena.

Stefano mi raggiunge in camera e mi abbraccia.

Lino, tuo padre, continua a muoversi nervosamente tra le camere della casa, senza pace. È ancora convinto che tu ne abbia combinata una grossa, questa volta.

Tu????

Sono le dieci e quarantacinque quando quel maledetto campanello accende per l’ultima volta i nostri occhi di luce. Non ho il coraggio di aprire la porta. Tuo padre sì.

Sono tre agenti, poliziotti, persone, una anche amica di famiglia, cui hanno dato l’incarico ingrato della più atroce comunicazione.

 

«Lino?».

«Sì, parla, cosa ha fatto mio figlio».

«Non si capisce esattamente… pare che si sia sentito male all’improvviso, vicino all’ippodromo, dove hanno trovato il cellulare, hanno chiamato i soccorsi ma ormai non c’era più niente da fare».

«Lino, mi dispiace».

 

Stefano ha sentito tutto.

Io da questa camera non ci esco mai più figlio mio, non me lo chiedere di accettare la tua assenza, non riesco, non posso. Io resto qui, immobile, per me il tempo si ferma adesso e da questo momento non esistono più lancette meccaniche, orologi, la clessidra la faccio io, e la custodisco dentro me, dove nessuno la può vedere, nessuno la può interrompere. E poi la giro, e la giro ancora e così all’infinito. Stringimi Stefano, stringi la madre che ti hanno lasciato, quel pezzo che adesso sarà sempre solo metà, ma tuo, solo tuo. E comprendimi in questo abbraccio se puoi, sorreggimi con i tuoi tredici anni e non lasciare che sprofondi nel nulla che mi si apre davanti, dopo quella voce terribile, quell’annuncio tanto temuto e alla fine arrivato.

Non riesco a piangere, non riesco a parlare, non voglio vedere nessuno.

Voglio restare dentro questa camera e guardare l’abisso che la tua partenza mi ha spalancato davanti e voglio aggrapparmi e tenermi stretta a te perché prima o poi so che dovrò fingere la forza, il coraggio di camminare di nuovo, come se niente fosse.

Federico, mi chiami? Se mi dici dove sei vengo a salutarti, nemmeno quello mi hanno lasciato.

Dov’è adesso, dove lo avete portato?

 

«Era meglio che voi non lo vedeste, abbiamo pensato che sarebbe stato meglio spostarlo da dov’era… e magari farvelo vedere domani».

«E dov’era, porca puttana? Sono tre ore che cerchiamo ovunque?».

«Lino, stai calmo — dice la voce amica — , era all’ippodromo. Credimi, è stato meglio così».

 

Meglio così?

Perché, per chi? Voglio raccogliere il corpo di mio figlio, annusarlo, baciarlo, voglio vedere Federico.

 

«Forse dovevamo essere noi a decidere, non credi?».

«Lascia stare Lino, vai da Patrizia e Stefano. Noi ci sentiamo più tardi».

Il silenzio ha tanti modi di manifestarsi, abitarci la vita, rappresentarsi alle nostre coscienze.

Ci sono silenzi di cui abbiamo bisogno, silenzi imbarazzanti, silenzi indesiderati, silenzi fuori luogo.

Quando manca il fiato, le parole si affogano nel senso mancato, si strozzano le possibilità infinite della nostra esistenza in quelli che ora possono essere solo rumori estranei. Allora quella dimensione dentro la quale questa storia dovrà trovare cornice come possiamo chiamarla?

Le ragioni di alcuni eventi sono del tutto inspiegabili oppure semplicemente devono rimanere dietro le quinte con la certezza che tutti sanno perfettamente dove è bene che restino. Possibilmente per sempre.

Alla vita verrà restituito ossigeno solo se qualcuno troverà la forza di andare a vedere e dire a voce alta, senza timore, cosa si nasconde e perché.

Nel frattempo il cielo sa come sono andate le cose…

Grazie per aver letto questo articolo...

Da 20 anni Estense.com offre una informazione indipendente ai suoi lettori e non ha mai accettato fondi pubblici per non pesare nemmeno un centesimo sulle spalle della collettività. Il lavoro che svolgiamo ha un costo economico non indifferente e la pubblicità dei privati non sempre è sufficiente.
Per questo chiediamo a chi quotidianamente ci legge e, speriamo, ci apprezza di darci un piccolo contributo in base alle proprie possibilità. Anche un piccolo sostegno, moltiplicato per le decine di migliaia di ferraresi che ci leggono ogni giorno, può diventare fondamentale.

 

OPPURE se preferisci non usare PayPal ma un normale bonifico bancario (anche periodico) puoi intestarlo a:

Scoop Media Edit
IBAN: IT06D0538713004000000035119 (Banca BPER)
Causale: Donazione per Estense.com