Mi è sempre piaciuto molto andare in automobile con mio papà. Il papà è bello, alto e ha una professione che non saprei descrivere. Sicuramente nella città in cui vivo è una persona molto stimata. Credo che sia medico, almeno così dice la mia insegnante a scuola quando si rivolge a me sperando che possa in qualche modo farmi piacere essere chiamato semplicemente il figlio del dottore. Io, quando lei mi chiama così, sorrido perché vedo che anche gli altri bambini ridono ma non ho ben capito cosa significhi. Andare a scuola è così noioso che mi sembra comunque vantaggioso cercare di approfittare dei pochi istanti d’allegria che si creano. Il motivo non è poi così importante. Il papà parla in modo abbastanza elegante ma qualche volta gli scappano parolacce come cazzo, o merda, specialmente quando parla con la mamma, di sera tardi, quando rientra dal suo lavoro importante e pensa che io già sia tra le braccia di Morfeo. Non mi addormento mai subito perché mi piace parlare con il mio amico Arturo, che ogni sera mi viene a trovare e parla con me di come ha trascorso la giornata. Arturo fa il falegname e ha una bella seicento che spinge agli ottanta l’ora. Niente male, commento tra me e me. Anche io quando sarò grande e avrò un lavoro come Arturo, mi comprerò una seicento. Arturo mi dice di non avere fretta a crescere perché il mondo dei grandi non è poi così bello, sempre tutti così indaffarati ad andare, andare e senza mai parlare, ascoltare, raccontare. Mi assicura che anche lui, che fa solo il falegname, non riesce mai andare a casa a mangiare a pranzo e la sua fidanzata Rosa per questo piange quasi tutti i giorni. È una vita triste, quella dei grandi, conclude quasi sempre Arturo. Ma io gli rispondo che la mia non sarà triste come la sua perché io non lascerò mai il mio tesoro a casa, lo porterò sempre con me. Ad Arturo piacciono molto i colori e così per farlo sorridere gli racconto che a scuola la maestra mi ha fatto disegnare un cavallo e io l’ ho pitturato tutto d’azzurro. La maestra non è stata contenta della mia idea perché mi ha detto che i cavalli azzurri non esistono se non nella fantasia d’alcuni bambini e mi ha detto che per compito devo disegnarne uno vero. Io un cavallo l’ho visto solo alla televisione, comunque Arturo mi spiega che nelle favole e nei cartoni animati gli animali corrispondono a come noi ce li immaginiamo e non a quello che sono nella realtà. Arturo ha detto che il mio cavallo azzurro lo conserverà in un cassetto. È convinto che si debba fare in questo modo. Dico ad Arturo che adesso mi va di dormire e gli chiedo se può rimanere ancora per qualche istante con me. Sì, Arturo è seduto in un angolo in fondo al letto, ha una chitarra in mano e sta suonando per me. Così entro nelle braccia di Morfeo e le urla del papà sfumano nell’oscurità della mia stanza, si perdono nei silenzi della notte, nelle note d’Arturo.
Che sono un bambino diverso dagli altri l’ho sentito dire per la prima volta dal papà in uno dei tanti litigi con la mamma. Le diceva che era tutta colpa sua se non avevo ancora imparato a leggere e a scrivere, che lei non si prendeva abbastanza cura di me e che preferiva andare a giocare a carte con le sue amiche piuttosto che stare con suo figlio.
Sono rimasto stupito perché capivo che il papà era triste ma non riuscivo a comprenderne la ragione. Io mi sentivo bene e non sapevo ancora che cosa volesse dire essere diverso, come aveva detto il papà. Una mattina il papà mi accompagnò a scuola e volle entrare per salutare la maestra. Fu quell’orribile mattina che sentii bene con quale preoccupazione la signorina Giulia avvertiva mio padre che sarebbe stato meglio farmi seguire da un logopedista. La parola pronunciata con tanta serietà mi fece venire le lacrime agli occhi. Quando papà stava per andarsene lo guardai supplichevole, domandandogli che malattia avevo e che, se era grave, volevo saperlo. Gli dissi che io non avevo paura della morte, che quando era morta la nonna non avevo pianto ed ero pronto a comportarmi nello stesso modo anche se mi fosse stata riservata la stessa fine.
Il papà si mise a ridere, mi abbracciò e mi disse niente di grave, con un fare da burlone e mi rassicurò dicendomi che ne avremmo parlato a casa in presenza anche della mamma per decidere il da farsi. Mi lasciò così in compagnia di Giulia che con sguardo compassionevole m’invitò ad unirmi agli altri. Era l’ora della preghiera.
Mamma e papà mi hanno messo in una scuola dove ci sono anche le suore perché in questo posto posso rimanerci fino alle quattro e mezzo del pomeriggio e poi perché, come ripetono sempre loro quando parlano con i grandi (così chiamano i loro amici), nelle scuole di questo tipo le insegnanti sono più attente ai casi difficili.
Ecco allora come mi definivano fra grandi: un caso difficile.
Dopo quella mattina a scuola non sentii mai più né la mamma né il papà parlare di logo… non ricordo esattamente come, e anche i litigi si fecero meno frequenti di prima che quella orribile parola fosse pronunciata. Perciò alla fine arrivai persino a pensare che fosse una parola magica.
Un giorno mentre, chiuso nella mia camera, provavo a mettere insieme alcune lettere che avessero un qualche senso almeno a me comprensibile, entra la mamma e mi dice che una signorina è venuta a trovarmi e vuole vedermi. Bene, penso fra me, finalmente succede qualcosa.
La signorina entra e mi dice ciao ma ad una prima occhiata non mi sembra per nulla una visita di piacere. Dice di sedermi sul letto e poi lei prende la poltroncina rossa vicino alla finestra e si viene a mettere davanti a me. Ha un naso lungo e storto e gli occhi sono di quelli che sembrano non avere colore. La mamma mi ha sempre descritto così la befana e così per un attimo m’immagino che sia proprio lei e penso che, proprio adesso che incominciavo a non crederci più, me la ritrovo davanti. Poi la guardo meglio e mi accorgo che non ha la sacca dei doni e così capisco che non può essere la befana. Continuo a fissarla mentre parla in modo del tutto incomprensibile. Così ad un certo punto mi metto a gridare, strillare senza lacrime e lei sembra finalmente capire che la sua presenza m’infastidisce. Esce dalla camera mentre mia madre si precipita per vedere cosa sta succedendo e sento la brutta signora che dice a mia madre che non deve starmi simpatica ma che la prima volta fanno tutti così. Sarà solo questione di abitudine sia per il bambino sia per me, conclude con una voce quasi rabbiosa. Mentre la mamma le offre il tè e si sforza di fare la persona gentile, io mi domando chi sono quei tutti che fanno come me quando si trovano davanti a lei e mi chiedo quante volte dovrà venire a trovarmi prima che mi possa stare simpatica. Sono preoccupato e mi chiudo a chiave deciso a rimanere solo e in silenzio fino a quando la mamma non mi dirà esattamente come stanno le cose. Passa molto tempo prima che dall’altra parte della casa una voce m’inviti a venire a tavola. Continuo nel mio silenzio, voglio che la mamma si accorga che sono arrabbiato. E così dopo qualche minuto un’ombra, dietro la porta a vetro sigillata, mi domanda se sono diventato sordo oppure voglio solo rimanere senza cena. I bambini capricciosi come te non si meritano tanta attenzione, dice con il tono gelido di una voce estranea. Continua ricordandomi che tanti bambini vengono abbandonati nei cassonetti e privati del calore di una famiglia fin dai primi giorni di vita. Non ho mai capito fino in fondo il senso di questa frase ma sia la mamma sia il papà la dicono quando vogliono spaventarmi oppure perché mi renda conto che sono fortunato.
Non ho nessuna voglia di uscire dalla camera e mangiare in uno dei soliti silenzi dei grandi. Sbuffo, mi lamento ma poi l’idea di rimanere a stomaco vuoto mi spaventa e così mi decido ad uscire. Me li trovo davanti con i loro visi neri. Il papà ha alzato la televisione perché come ogni sera, mentre la mamma parla, lui ascolta le notizie del telegiornale.
Papà, perché gli uomini fanno la guerra, perché i bambini vengono buttati via come rifiuti, perché il telegiornale non ci fa mai ridere, papà perché devo incontrare ancora la donna di oggi pomeriggio, perché? Papà perché invece di fare finta di ascoltare il telegiornale non parli con la mamma?
Rimango anche io in silenzio con tutti i miei perché fino a quando il telefono interviene tra i nostri silenzi e il papà rivolgendosi a me dice vai tu. È Marilena che mi chiede se ho scritto sul diario i compiti di geografia. Dentro di me una gioia grande cresce all’improvviso. Ha chiamato proprio me! Marilena, la più carina delle femmine, il sogno di tutti noi maschi, ha telefonato a me, Ludovico il balbuziente, Ludovico che non sa leggere e scrivere come gli altri bambini, e che neppure quando si guarda allo specchio può essere felice. L’emozione mi frena di fronte a quella vocina tanto delicata. Riesco ad immaginarla mentre cerca sull’elenco telefonico il mio numero, ripetendo a voce alta il mio nome e cognome. Sì, vedo le sue labbra che si muovono dolcemente sussurrando Ludovico Buzzoni.
Vedo le sue manine bianche e leggere che sfogliano le pagine, i suoi occhi grandi e lucenti che cercano, cercano. Sì, cercano proprio me, il diverso. Provo a reagire e riesco solo a pronunciare alcune sillabe che significano poco. (E pensare che vorrei gridare forte).
Dài, Ludovico, forza, occasioni come queste non capitano tutti i giorni. Ci riesco, e tutto d’un fiato dico che i compiti di geografia sono per il prossimo mercoledì. Lei non risponde per alcuni istanti e poi mi chiede se sono sicuro e se voglio che proviamo a studiare insieme.
Tremo dappertutto, nelle gambe, nelle mani, dentro la testa una confusione enorme m’impedisce di pensare che la domanda è stata fatta a me e non ad un altro. “Sì, accenno con un filo di voce, va bene domani?”, le chiedo sussurrando suoni che sembrano provenire da mondi lontani e sconosciuti. “Sì, risponde lei, alle quattro ti aspetto da me. Ciao Ludovico”.
Torno a tavola e continuo in silenzio a fissare questi due adulti che ho davanti. Per un momento mi sento estraneo alla tristezza di quei visi, mi sembra di essere più fortunato di loro. Mi guardo dentro e mi accorgo che sto ridendo e anche Arturo sta ridendo con me. Dico sottovoce ad Arturo che ho un segreto bellissimo da raccontargli ma che prima devo finire di mangiare.
“Guarda Ludovico, se non ti muovi, metto il tuo piatto in cucina e finisci di mangiare da solo”, mi urla la mamma. Io il senso di questa minaccia non lo capisco perché in realtà sono sempre solo a parte la notte quando vicino a me c’è Arturo con la sua chitarra. Comunque non cerco di capire e mi sbrigo piuttosto a finire la zuppa di fagioli. Papà si è già alzato ed è seduto davanti alla televisione con il giornale in mano. Nella mano sinistra tiene stretto un bicchiere di grappa. Al papà piace molto bere e la mamma spesso lo chiama ubriacone e quando parla con le sue amiche dice che tutte le sere papà va a dormire unto. Io una volta ho raccontato alla maestra quello che dice la mamma e quindi le ho domandato che cosa vuol dire “unto”, ma lei mi ha detto di non pensarci e continuare a disegnare mentre i miei compagni di classe ridevano, aizzati da quel ciccione di Riccardo.
Riccardo è il secchione della nostra classe e si comporta sempre come un piccolo sapientone. Non è per niente bello ma tutte le femmine lo seguono solo perché vogliono che lui le aiuti a fare i compiti di matematica. Ha una faccia da tapiro, tutta stretta e allungata in avanti con due occhi tondi e senza espressione e le ciglia affollate e spettinate gli danno sempre un’aria da cattivo e sapiente insieme.
È il cocco anche della maestra che ogni volta che qualcuno sbaglia i compiti dice “Riccardo mostra ai tuoi compagni come hai svolto tu gli esercizi”. E allora lui si alza in piedi e incomincia la sua commedia in un silenzio che neppure durante le recite di fine anno è così assoluto e si mette a leggere i suoi compitini sempre perfetti. Riccardo non fa mai un errore e la maestra diventa felicissima ogni volta che apre la bocca. Dentro di me penso che la maestra ha smesso anche di ascoltarlo. Riccardo è sempre bravo, non sbaglia mai.
Non riesco a leggere.
Mi ricordo bene quando la mamma pensò che fosse venuto anche il mio momento. Mi leggeva favole tutte le sere perché non riusciva a capire che cosa non andasse in me. Lei leggeva e mi mostrava le figure sul libro così, sfinito, perché ormai la favola di Hansel e Gretel la conoscevo a memoria, riuscii finalmente ad associare una figura ad un nome e lo pronunciai facendo finta di leggere sul testo. La mamma telefonò ai nonni, alle sue amiche, al papà in studio dicendo in un grido di gioia: “Ludovico ha imparato a leggere. Finalmente, diceva, non ne potevo più di passare ore ed ore a leggere questa roba”.
Io lo sapevo che non avevo imparato un bel niente e volevo dirglielo. Il giorno successivo la mamma disse che arrivati a questo punto dovevo imparare a leggermele da solo le favole e così anche quei pochi momenti di attenzione che aveva dovuto concedermi fino a quel maledetto giorno svanirono. Avevo sei anni, adesso ne ho otto e non ho ancora imparato a leggere. Confondo le sillabe, sono lento e qualunque progresso ha tempi incalcolabili. Per scrivere un pensiero ci metto sei ore e il risultato è sempre mediocre. La mamma non me li legge più perché dice che devo imparare a crescere sulle mie gambe.
Le mie gambe sono lunghe e sottili. Ho problemi alle caviglie tanto che l’insegnante di educazione fisica mi fa sempre fare esercizi diversi da quelli degli altri bambini. Le femmine si mettono spesso a ridere quando indosso i pantaloncini corti. Un giorno ho domandato alla mamma se potevo avere una tuta con i pantaloni lunghi, lei mi ha risposto di sì ma non si ricorda mai di comprarla.
Entro timidamente nella camera di Marilena e mi metto a sedere mentre lei tira fuori i libri di geografia. Me li mette davanti, li apre alle pagine che dobbiamo leggere insieme e dice che devo incominciare io. Divento rosso, sento il calore del fuoco bruciare la mia faccia, gli occhi s’inumidiscono nonostante mi stia sforzando di restare calmo. Incomincio a leggere. Intorno a me il silenzio e il profumo di Marilena, della gomma alla fragola che sta masticando, un sapore di una delicatezza nuova, la sua attenzione così naturale e generosa. Vuole ascoltarmi, non posso deluderla. Incomincio a leggere e le parole escono come suoni melodiosi dalla mia bocca, senza esitazioni, intralci. Volano all’improvviso come note per arrivare a sfiorare quel viso innocente e buono di bambina che mi sta di fronte e aspetta. Aspetta me, solo me. Sono felice quando alzo lo sguardo e mi accorgo che Marilena sta sorridendo. Le sorrido anche io. Non c’è nessuna compassione sottintesa ai suoi gesti. Me n’accorgo subito e sono fiero di me, fiero anche di essere un diverso se questo significa avere Marilena anche solo poche ore la settimana tutta per me. Il tempo vola e s’introduce tra noi solo grazie ad una fantastica torta di mele che sua mamma annuncia dalla cucina. È l’ora della merenda, dice la mia amica dolcissima. Per me poteva essere qualunque ora, della merenda, della cena, persino il pranzo di Natale o di Pasqua. Capisco finalmente cosa significa quando qualcuno dice sono felice, ma mi sembra comunque di essere ancora più felice di chiunque altro.
Penso anche che dio deve avere sempre l’espressione che ho io in questo momento. M’innamoro improvvisamente della vita, della mia vita, della scuola perché so che in quel posto ho conosciuto Marilena e potrò rivederla ogni giorno; di casa mia perché so che Marilena potrà chiamare ancora e chiedermi di fare i compiti con lei; delle strade della mia città perché posso sperare di incontrarla ogni volta che le percorro. Non ho più paura di essere solo perché da oggi non sarà più così. Non so come racconterò tutto questo ad Arturo ma sono sicuro che alla fine capirà e dovrà condividere con me questa gioia nuova. Non mi dispiace nemmeno pensare che dovrò incontrare quella donna logo… cosa, perché so che nessuno potrà mai più rubarmi quest’istante che mi ha restituito alla vita e alla voglia di alzarmi la mattina. Mi viene persino voglia di abbracciare la mamma e il papà e di perdonare le loro quotidiane indifferenze, la scarsa attenzione che mi dedicano, perché in fondo sono buoni e forse un pochino di bene me lo vogliono anche loro. Certo non sapranno mai quanto poco sarebbe bastato per farmi felice: un sorriso vero e una profumata fetta di torta di mele preparata con amore. E calda. Dio, come mi piacerebbe fermare tutto questo e sarei convinto di non perdere niente perché so che quanto ho avuto oggi mi basta per essere felice e per sempre.
Ma il tempo smette di essermi complice e alle sette in punto il campanello interrompe i nostri giochi di bambini tra una Lombardia nebbiosa e una Sicilia piena di sole. Tutto sembra scappare così in fretta quando la porta mi si chiude alle spalle e mi ritrovo trascinato dalle mani fredde della mamma verso la macchina. Perché non mi domanda se mi sono divertito? Continuo ad aspettare che dica qualcosa e intanto le fisso le labbra pensando che la forza del mio pensiero finisca con il vincere quell’odioso silenzio di adulta distratta. Hai fatto i compiti e il silenzio finalmente si rompe anche se non proprio come mi aspettavo io.
Avrei voluto dire alla mamma che avevo imparato a leggere ma come spiegarle che ancora non sapevo o non avevo voluto imparare a farlo, come dirle che lei con tutta la sua pazienza di lettrice di favole non aveva capito che sarebbe bastato molto meno per il suo Ludovico, che sarebbe bastata qualche merenda non confezionata e un sorriso. Non trovo le parole per dirle quello che si muove come un terremoto dentro di me e così sto in silenzio. Quello che mi hanno insegnato molto bene loro, quando evitano persino di guardarsi negli occhi.
Non ci metto molto ad accorgermi che la gioia di quegli istanti indimenticabili a casa di Marilena si sbiadisce molto più rapidamente di quanto avessi pensato. La mia espressione è di nuovo assente, si è ritirata per essere protetta dentro il mio cuore che continua a battere forte. Non dirò niente alla mamma e al papà di quello che ho provato oggi pomeriggio e del resto non sono nemmeno convinto che mi possano capire. Per loro resto Ludovico il diverso, Ludovico il caso difficile, di cui lamentarsi con i grandi nelle loro serate noiose e senza luce, dove la vita va avanti senza significato, dove il tempo brucia ogni secondo, lasciando dietro sé solo cenere e niente di più, e non si vede l’ora che si porti a dormire tutti quanti, stanchi di non dire niente, stanchi di non ridere mai , di non sentire, di non desiderare mai niente.
Adesso sono di nuovo in camera mia con Arturo e torno a ridere con lui.