Attualità
25 Ottobre 2012

Partendo dalle radici

di Elena Bertelli | 5 min

Le cicaliche si assomigliano, riconoscerle nell’ambiente suburbano è facile. Voglio darvi qualche dritta, perché, dico io, se l’obiettivo è dar voce a questa realtà, allora c’è bisogno di studiarla, sezionarla e sviscerarla. Ho qui un bisturi affilato e tanta voglia di giocare all’allegro chirurgo.

Tanto per cominciare, per le cicaliche sono molto importanti le origini.

Non so se si tratti di un fattore genetico o se la colpa sia dell’imprinting, fatto sta che le formichine operose che animano la vita cultural-basso-padana hanno in comune un amore profondo per le tradizioni e il ricordo. No, non è un sentimento che ha a che fare con la nostalgia, semmai, al contrario, con la propensione per il recupero, lo svecchiamento, la carica costruttiva – l’opposto della rottamazione, ecco, sì, l’ho detto! È un concetto che non capirete mai se ve ne state lì seduti a invecchiare e ad accanirvi sullo spazio commenti sottostante, anziché andarvene in giro per la città a viverla e parteciparla.

I nostri vecchi ci hanno regalato la loro cultura e i loro ricordi. Fin da bambini, ci siamo tenuti addosso gli odori, i colori e i suoni del luogo in cui siamo nati. Oggi abbiamo radici forti e un attaccamento che diventa entusiasmo e riconoscenza per il posto in cui viviamo, fatto di terra scura che coltiviamo per il futuro, perché abbiamo imparato ad amarlo.

Insomma nel c.v. di un’aspirante creativo al servizio della collettività non può mancare la presenza di una buona dote di coscienza storica. Così, ad esempio, mettendo insieme un buon numero di zampe, stridio d’ali e roteare di antenne si può far tornare a vivere, perché se ne comprende il valore, anche uno stabile nato come magazzino. All’interno di questo edificio abbandonato sulla riva del fiume si può ricostruire una camera delle meraviglie, mettendoci dentro le attività di tante associazioni, in un sistema di co-working. Succede davvero a Palazzo Savonuzzi, sulla darsena del Po di Volano, dove ora c’è anche la Scuola di Musica Moderna.

Si, è vero, tutti abbiamo dei ricordi, quindi, a quanto pare, non c’è proprio nulla di straordinario nel farvi particolare affidamento. Parrebbe una cosa naturale. No, credete a me, non lo è affatto.

Avete mai provato a risalire alla vostra prima memoria culturale? E vi siete mai chiesti che peso specifico ha avuto il ricordo di quel momento nella vostra crescita individuale e sociale? È un esercizio infallibile per individuare potenziali e inconsapevoli cicaliche suburbane.

Per farvi capire cosa intendo vi racconterò qualche ricordo culturale che ho trovato scavando più a fondo che ho potuto nel mio passato (e chi vuole a tutti i costi informazioni sulla blogger – che non si sa mai che vi si nasconda dietro un criminale, assetato di potere – avrà un contentino).

La prima e più annebbiata reminiscenza è la preghiera che recitavo con la nonna Adriana, prima di dormire, di cui ricordo solo tre parole conclusive: ‘e così sia’. Quella preghiera non finiva con la più comune formula ‘amen’ di cui una bimba piccola non avrebbe compreso il significato. La nonna mi aveva insegnato le parole giuste per capire il senso di ciò che stavo ripetendo meccanicamente. Questo mi ha permesso di far mia un’espressione che non è nulla, se non speranza nel futuro, un’iniezione di positività i cui effetti durano ancora oggi sulla mia personalità, anche se niente hanno a che fare con la pratica religiosa cattolica.

Sempre alla presenza della nonna devo una passione che non si è ancora esaurita, la lettura delle Favole al Telefono. Devo averla sfinita a forza di chiederle di rileggermi sempre quelle pagine dove si narra la vicenda tragicomica del Signor Falaninna, che finisce ucciso da una cacchettina di mosca. Rileggendo Rodari, oggi, continuo a rimanere sorpresa dalle lezioni di vita che filtrano tra le righe dei suoi racconti fantastici. Storie che mi sono servite ad acquisire una sconfinata fiducia in ciò che ci riserva il futuro, nella bontà d’animo delle persone e una certa diffidenza verso chi si ferma davanti ai semafori blu.

Poi c’è un ricordo che più degli altri ha inciso su chi sono oggi. Ero poco più di una bimbetta di 5 o 6 anni, seduta su un divano bianco in una casa dalle forme e dai colori che così strani li avevo visti solo alla tv: una moquette verde copriva tutto il pavimento, le pareti erano rosse e nere e, in certi punti mancavano i muri, al loro posto enormi finestre. I grandi chiacchieravano, io mi guardavo intorno sbalordita mentre nel mio naso si insinuava l’odore forte di un sigaro acceso. C’erano oggetti meravigliosi tutto intorno a me e volevo toccarli, giocarci. Ma, appena l’idea di alzarmi per perlustrare la stanza mi aveva sfiorato la mente ecco rivolgersi a me il padrone di casa, un finto sorriso sotto lunghi baffi grigi, una manciata di brustoline tra le mani e poche, secche parole: ‘queste le sai mangiare? attenta a non far cadere niente sul pavimento…’.

Dopo molti anni, quando sono rientrata a Villa Bighi, il signore con i baffi non c’era più e tutti i suoi oggetti più preziosi erano stati trasportati altrove. Superato l’ingresso il verde della moquette ha inondato i miei occhi, un odore inconfondibile mi è arrivato dritto al cervello. In quel momento ho capito che avrei potuto fare qualcosa per toccare con le mie mani, finalmente, tutte quelle cose meravigliose, non per giocare, ma per far sì che molte altre persone potessero conoscerne la storia e godere della loro bellezza.

Così ho deciso che avrei concluso i miei studi dedicando una tesi di laurea alla collezione d’arte di Dante Bighi, poco dopo ho incontrato altre cicaliche incuriosite dall’insolita presenza architettonica copparese. Con loro è iniziato un percorso che ha portato alla nascita del Centro Studi Dante Bighi che da 5 anni produce cultura contemporanea dentro e fuori questo magnifico contenitore, per farlo diventare qualcosa di più vivo e dinamico di una semplice casa museo.

Sarebbe stato possibile fare tutto questo senza partire dalle radici?

 

Ps: Il nome di questo post deriva da un’espressione ideata dal critico d’arte Pierre Restany, come titolo della mostra allestita nel 1984, nel Castello Estense di Ferrara. Qui si presentava alla città la produzione artistica ed editoriale del grafico pubblicitario, copparese di nascita e milanese di adozione, Dante Bighi.

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