Attualità
18 Ottobre 2012

Scuola e responsabilità storica

di Piero Stefani | 3 min

Luigi Giampaolino, Presidente della Corte dei conti, ha recentemente reso noto che su scala mondiale l’Italia si colloca al terzo posto in riferimento all’evasione fiscale; la precedono soltanto Messico e Turchia.  Se la lotta contro l’evasione è compito dei governi e degli organi preposti ai controlli, il fatto di evadere le tasse riguarda tutti i cittadini. In Italia non sono malate solo la politica e l’economia; anche la società nel suo complesso è affetta da patologie gravi.

Secondo la banca dati dell’Agenzia delle entrate nel 2011 c’erano aree del Paese in cui l’evasione fiscale è arrivata a toccare punte del 66%.  Si calcola che mediamente  ogni contribuente evade 17,87 euro per ogni 100 euro di imposte versate al Fisco. Ma se al calcolo vengono sottratti quei cittadini che non possono evadere, in quanto dipendenti, la somma evasa sale a 38,41 euro. Le aree dove il tasso di evasione è inferiore (al 10,93%) sono rappresentate dalla province dei grandi centri urbani produttivi: Milano, Torino, Genova, Roma, Lecco, Cremona, Brescia. Il tasso massimo del 65,7%  viene registrato a Caserta, Salerno, Reggio Calabria e Messina.

Questi dati evidenziano questioni di lungo termine. Anche le risposte dovrebbero perciò, almeno in parte, essere, simmetricamente, di lungo periodo. Esse vanno individuate tanto in piani di uno sviluppo più equamente distribuiti sul territorio nazionale quanto in interventi incentrati sulla cultura e sull’educazione. Il senso civico fa pagare più tasse della coercizione. L’agenzia educativa – per indulgere a un tipo di linguaggio che nega implicitamente quanto afferma – che raggiunge tutta la popolazione negli anni decisivi della sua formazione è la scuola. Il senso civico si forma tuttora  anche lì.

Prospettare un automatismo tra investimenti nella scuola e diminuzione dell’evasione fiscale è ovvia illusione; con tutto ciò continuare a umiliare la componente scolastica resta un’azione suicida da parte dei gestori della cosa pubblica. Negli ultimi decenni la classe insegnante ha dovuto subire dapprima l’egemonia di istanze didattico-docimologiche che hanno demotivato i docenti colti e responsabili e hanno fatto emergere i detentori di superficiali competenze tecniche (e la responsabilità di tali scelte va ricercata soprattutto a sinistra). In seguito la sbandierata autonomia scolastica ha portato all’espansione pletorica della burocrazia e alla creazione di dirigenti scolastici manager sempre più estranei alla dimensione culturale. Poi è subentrata l’era, tuttora in pieno rigoglio, dei tagli e degli accorpamenti. Ora si prospetta addirittura un aumento di ore di cattedra, anteponendo, ancora una volta, la quantità alla qualità (vale a dire alla cultura).

Nonostante tutti i suoi gravissimi mali, la scuola rimane un punto di riferimento fondamentale per la formazione delle generazioni future. È perciò una responsabilità davvero storica quella che pesa sui molti governi che con le loro azioni improvvide hanno demotivato la classe docente e umiliato la sua passione culturale ed educativa, peraltro tuttora presente in non pochi “eroici” insegnanti. Certo alla scuola dovrebbe seguire il lavoro e non la disoccupazione; con ogni probabilità quest’ultimo è il  problema più grave del nostro Paese, ma il depotenziare la scuola non aiuta di sicuro a risolverlo.

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