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Dava del tu ai potenti del mondo. Ma i potenti del mondo gli davano dell’imbecille.
Ha attraversato tutti gli stadi evolutivi dell’uomo: da Città Bambina a Informagiovani all’Ancescao fino allo stadio ultimo “Vainer Merighi”. In un delirio di onnipotenza già si proiettava verso il totalmente altro, l’Amsefc. Fortuna volle che correva l’Anno della Salute e tutto si smaterializzò in una più consona lista d’attesa per l’ex Ipab.
Ma procediamo con calma. L’homo ferrariensis fece la sua comparsa sulla faccia della Terra nella notte dei tempi. Effettivamente qualcosa non doveva aver ben funzionato nella stanza dei bottoni di Enel. Fatto sta che luce fu. Un soffio vitale sibilante di esse e di elle si insinuò in un coacervo di creta e argilla informe, scomposto, preda degli agenti atmosferici. Era nata la pavimentazione di Piazza Municipale.
Ma ancora un po’ più in là, nella valle dell’Eden, attorno all’isola ecologica attrezzata di via Diana, dove Hera dispensa a ogni coppia di animali il bonus Tia, stava nascendo lui. Era ancora meno che un embrione, un’Ecoidea nel pensiero di Soffritti. Poi il Padreterno, Soffritti appunto, soffiò e gli diede vita. Un primo vagito e aprì gli occhi. Come di fronte alla visione dell’effige della maternità, quasi una Paola Castagnotto in formato Anpi, abbozzò “mm…, mma…, maial ac Spal!”. Stava già superando brillantemente la fase della lallazione. Bruciò le tappe come e più di Aldo Modonesi e in men che non si dica si tuffò nell’adolescenza. Sin da piccolo si segnava gli appuntamenti sulla sua Agenda 21, che puntualmente gli amichetti dispettosi davano in pasto a qualche inceneritore. Tapezzava la cameretta di gigantografie del suo sogno erotico, Irene Bregola. Ma l’inquietava il rimorso della falce e martello. Divenne cultore di teratologia e sostituì nei suoi pensieri l’epigona di Rosa Luxemburg con Alfredo Zagatti. Tanta tenerezza.
E venne l’età dell’amore. S’innamorò felice e spensierato come Nando Rossi di Roma, anzi come Bill Clinton ai tempi di Washington. Ma la sua diletta, Eva, conosciuta tra le legionarie di Pax Christi, difettava di quella passione crisostomica per lui tanto necessaria all’amore profano. Il suo cuore si volse altrove. “Era Eva”, adesso si chiama “Heva”. La vide. Era un angelo. Sì, un angelo di Guantanamo. Lavorava come fisioterapista al San Giorgio. Reparto grandi traumatizzati. Della serie “prima ti spezzo le ossa poi ti chiedo come ti chiami”. Qualcosa non funzionò. “Nessuna donna mi ha mai fatto soffrire così tanto”, ebbe a lamentarsi. E difatti di sedute fisioterapiche così cruente nell’ex Casa del Pellegrino non si ricordavano dal tempo del Giubileo.
Si sentiva, come dire, innocentemente inutile come le istruzioni di un’hostess in aereo. Si dette all’Ars hidra, l’arte di trarre pronostici dalle urine. E trovò accoliti. Il mercoledì sera intorno ai caseggiati nelle vicinanze del bar Settimo diventava un vero e proprio man in the corner. Ma neanche la religione gli bastava. Si buttò nel lavoro. Come onda impaziente di essere schiuma, come argilla impaziente di essere vaso, come Federico Saini impaziente di essere sindaco, cercò all’Ufficio collocamento la sua collocazione. Ma non esisteva più l’Ufficio collocamento. Hai voluto la città delle biciclette? E allora impara a pedalare. Gli hanno costruito 37 km di ciclopedonale ma non riusciva a evitare che i predoni del deserto gli fottessero sistematicamente il velocipede. Ma la speranza è l’ultima a morire, come ammoniva Alfredo Sandri all’indomani dell’11 aprile. Scelse l’autobus. Navetta Centro. Aspettando il tram chiamato desiderio sfogliava i petali della margherita. “Ami o non Ami?” niente da fare. Meglio il treno allora. Ma il personale era rimasto incastrato nei meccanismi della ztl. In attesa che arrivasse Bartezzaghi le corse erano state sospese. Cosa ci vuoi Fer?
Pensava di potercela fare da solo. Si accorse che non era in grado. Un amico gli suggerì “fallo subito!”. Non intese subito, ma una volta capito che non erano insinuazioni sulle sue presunte prestazioni anzitempo, agì di conseguenza. E con la tessera Arci in tasca si affacciò sulla Ferrara che conta. Che conta i soldi. Come in “Ces gens là” di Jacques Brel. Frastornato, mise i sentimenti in un fagotto e si incamminò, per restare fedeli alla canzone d’autore, lungo la strada. Sbagliò strada. Era la Ferrara-Mare. Corse ANAScondersi dalla paura. E fino a poco tempo fa, se a qualcuno capitava di passare dalle parti di Ostellato, lo poteva incontrare nella zona Sipro, con una faccia da incubatore che consolava.
C’è chi giura di averlo notato strascicare i passi in quel di Argenta, a suonare a casa di vecchi amici. Nessuno rispondeva. E allora se ne andò, con quell’affrettata solitudine dell’ultimo della specie. Per sincerarsene, non tanto che se ne sia andato quanto che sia l’ultimo della specie, si sta ancora cercando la madre.
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