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Capita di addentrarsi in territori non propri, correndo il rischio di essere alquanto ‘arditi’. Valga come una semplice curiosità questo piccolo intervento, senza alcuna pretesa di troppa serietà…Tornando a sfogliare quell’album di istantanee della coscienza che è la “Psicopatologia della vita quotidiana” di Freud e spulciando alcuni pidocchi della memoria, l’attenzione si è fermata su un passo del capitolo III sulla Dimenticanza di nomi:
“Il meccanismo della dimenticanza dei nomi consiste nella perturbazione della desiderata riproduzione del nome da parte di una serie di idee estranee, non coscienti in quel momento. Fra il nome perturbato e il complesso perturbatore vi è o una connessione preesistente o una connessione prodottasi mediante associazioni superficiali e spesso per vie che appaiono artificiose. Tra i complessi perturbatori, si mostrano più efficaci quelli dell’autoriferimento (cioè i complessi personali, familiari, professionali). […] Fra i motivi di tali perturbazioni emerge l’intenzione di evitare l’insorgere di dispiacere tramite il ricordo”.
Fresco di memoria, ricordo un particolare rimasto impresso nella mente dopo la lettura della raccolta “Epigrafe” di Umberto Saba. Al termine della silloge, il poeta triestino lascia una nota per il lettore, che riguarda la poesia “Opicina 1947”.
Rileggendo i versi di “Opicina 1947”, scritta negli anni delle ormai sempre più feroci crisi depressive, Saba scopre sorpreso tra i suoi versi un “camerista”.
Nella nota l’autore fa una considerazione ‘bizzarra’ del vocabolo scelto: “mi piace poco. Ma il sonetto mi nacque di getto; e – arrivato alla parola che io stesso incrimino – questa, sbucata da chissà quale angolo della mia memoria, soccorse (male) alla necessità della rima… Rimediare non ho più saputo. Cercai allora di persuadermi che, pure così disvoluta, l’infelice parola potesse essere quasi una “bellezza”…e che, magari, la poesia reggesse su quella rima carpita…”
La rima incriminata è quella della quartina “Nell’ora dei ricordi vespertina/ sedemmo all’osteria, che ancor m’attrista,/ oggi, se penso quella camerista/ che ci servì con volto d’assassina”. Da dove nasceva quel vocabolo ‘reietto’? perché Saba sente l’esigenza quasi di giustificarsi aggiungendo al volume una nota (l’unica di tutto il libro) a proposito di questo ‘sgambetto della Musa’?
Per caso uno dei versi preferiti di chi scrive è proprio “le cameriste dan, senza tormento,/ più sana voluttà che le padrone.// Non la scaltrezza del martirio lento”, contenuto nella lirica di Guido Gozzano “Elogio degli amori ancillari”, verso 14. Verso che rimanda ad un’altra poesia sempre all’interno della produzione gozzaniana, “L’ipotesi”, dove il tema viene ripreso ai versi 5ss.: “Sposare vorremmo non quella che legge romanzi, cresciuta/ tra gli agi […] ma quella che porta le chiome lisce sul volto rosato/ e cuce e attende al bucato e vive secondo il suo nome: […] un nome così disadorno e bello che il cuore ne trema […] il fresco nome lucente come un ruscello che va:/ Felicità…”.
Continuando a navigare nell’arcipelago gozzaniano ci si imbatte in “Ketty”, dove torna quel “martirio lento” che distingue “cameriste” da “padrone”: “mordicchio il braccio con martirio lento / dal polso percorrendolo all’ascella/ a tratti brevi, come uno stromento” (vv.67-69). Il braccio è quello della desiderata Ketty, “vergine folle da gli error prudenti”.
Riassumendo il corso logico tratto dai frammenti del poeta crepuscolare, ne esce il filo “le cameriste – ancelle [la parola fa appunto parte della poesia “Elogio degli amori ancillari”] sono preferibili alle padrone di casa; per le cameriste – ancelle è possibile provare amore o attrazione [come in “L’ipotesi” e “Ketty”]; se tale affetto fosse possibile, allora ci sarebbe la Felicità [ancora “L’ipotesi”, senza dimenticare che una delle opere più famose di Gozzano si chiama proprio “La signorina Felicita ovvero la Felicità”].
Ecco forse l’associazione di pensieri che provocò la perturbazione nella memoria durante la stesura di “Opicina 1947”. L’ “infelice parola”, “sbucata da chissà quale angolo della mia memoria”, è fin troppo facilmente collegabile ad uno dei temi che più hanno influenzato la vita e la poesia di Saba: l’amore filiale per la sua camerista – ancella Peppa Sabaz, la balia slovena alla quale il giovane Saba viene affidato (il padre abbandonò la madre prima della nascita del figlio) e che diventerà la “madre di gioia” del “piccolo Berto”. Lo stesso pseudonimo del poeta delle “trite parole” (il vero nome era Umberto Poli) si deve a un omaggio alla nutrice. Come coniugare, quindi, l’amore ancillare che sin da bambino ha lacerato la psiche del poeta e la Felicità che viene nel ricordo poetico associato a quel richiamo, a maggior ragione durante le gravi crisi depressive che Saba stava affrontando?
L’autore de “Il Canzoniere” ebbe, come è noto, un’esperienza diretta della psicoanalisi (dal ’29 al ’31 con Edoardo Weiss, discepolo di Freud) e proprio da quest’esperienza trarrà la raccolta ‘Il piccolo Berto’, incentrata sul doloroso distacco dalla nutrice e sulle conseguenze che ha provocato nella vita del giovane Umberto.
“Fra i motivi di tali perturbazioni emerge l’intenzione di evitare l’insorgere di dispiacere tramite il ricordo”… che abbia ancora ragione Freud?
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