The scriblerus club
19 Giugno 2005
È tornato il teatro politico, eccezione in mezzo alla regola

Il “Quijote!”, sospeso tra Brecht e Beck

di Giacomo di cristallo | 4 min

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Il Quijote del Teatro Nucleo (foto di Hannette Höfer)

Il Quijote del Teatro Nucleo (foto di Hannette Höfer)

Ferrara ha appena digerito la sbornia da notte bianca. Una festa in tono forse minore rispetto a quella che due anni fa le valse il primato in Italia tra le città seguaci della moda parigina (prima ancora di Roma, infatti, la città estense aveva fatto sua, al di qua delle Alpi, la tradizione della festa del solstizio lunga un’intera notte). Meno eventi e meno artisti di spicco. Sono mancati Ottavia Piccolo che leggeva l’Orlando Furioso (ahimè non le Satire) dell’Ariosto, i duetti di strada tra attori che di un metro quadrato facevano palcoscenico (penso a Gaia Benassi e Francesca Fava ai piedi del Savonarola), le letture di versi nostrani negli angoli della città (qui forse c’è un motivo…).
Sì, qualcosa è mancato. Ma qualche altra si è aggiunta. In un lembo di asfalto di Largo Castello, custode un semaforo a luce intermittente arancione per l’ora tarda, è tornato uno di quegli spettacoli nati “in un borgo della Mancha, di cui non voglio ricordarmi il nome”.
È il “Quijote!”, il Don Chisciotte della Mancha, con quel punto esclamativo in più che rappresenta la forza con cui si parla alla gente. Alla gente di strada, alla quale il teatro, fin dalla sua nascita, appartiene. È il Quijote del Teatro Nucleo, la compagnia ormai trentennale che dall’Argentina ha scelto Ferrara come sua sede d’elezione.
È stato il Quijote il brano più significativo del libro che Ferrara ha voluto aprire sulla pagina notturna del 18 giugno. Identico a se stesso da quindici anni e capace di coinvolgere ancora, come il romanzo di Cervantes è in grado di fare da quattro secoli (il primo Don Chisciotte risale proprio al 1605).
Tommaso Cecial, il baccelliere Sansone Carrasco, Donna Rodriguez, Dulcinea del Toboso, Don Diego, e naturalmente Don Chisciotte e Sancio Panza, prendono forma di giocolieri e ballerini, in mezzo a giochi pirotecnici e scenografie che sembrano veramente il sogno di un pazzo. Allora delle pecore possono davvero diventare un esercito di mori, Dulcinea l’imperatrice della Mancha, dei mulini a vento giganti smisurati e la catinella d’ottone di un barbiere il famoso elmo di Mambrino.
Il tutto prende corpo attraverso la messa in scena e la drammaturgia di Cora Herrendorf e Horacio Czertok, nel fedele solco tracciato da Julian Beck. È Living Theatre a tutti gli effetti, come riconosce Cora stessa quando parla del suo fare teatro, “sospeso tra Beck e Brecht”. Se del primo c’è tutto, quanto al maestro di Augusta, rimane incerto il confine tra quanto è forma drammatica (perché il romanzo sul ‘Cavaliere della Triste Figura’ è dramma, un terribile dramma che fa esclamare al suo protagonista “io son nato per vivere morendo”) e quanto è forma epica del teatro. L’uomo è sì oggetto di indagine, ogni scena si regge da sé, lo spettatore è osservatore ma anche stimolato nella sua attività intellettuale. Tutte caratteristiche che soddisfano i crismi brechtiani; ma non penetra quell’assenza di emozioni creata per evitare volutamente la catarsi e lasciare così spazio all’indagine del pensiero da parte del fruitore (“Io do solo processi, per fare pensare il pubblico per conto suo”, dichiarò Brecht in una intervista). Più Beck che Brecht dunque.
Eppure, come un segno di appartenenza, quella forma epica di teatro, che è stata il teatro politico per eccellenza (non solo in Brecht, ma anche in Meyerchold e Piscator, per citarne alcuni), torna prepotente nell’essenza stessa dello spettacolo (oltre che nel finale, dove viene letta una famosa lettera di Che Guevara ai genitori). Questo perché (e probabilmente è il motivo per cui Cora e Horacio hanno voluto rappresentarlo) il Don Chisciotte, che lo si voglia o no, è un romanzo politico. Non solo per alcune frasi anticlassiste ante litteram (“Nel mondo non c’è che due razze, quella di chi ha e quella di chi non ha… Al giorno d’oggi si tasta prima il polso all’avere che al sapere”, “Il sangue s’eredita e la virtù s’acquista, e la virtù vale per sé sola più del sangue”), ma per il concetto stesso che anima la storia del cavaliere mancego. Il mondo alla rovescia negli occhi di un folle riesce bello e divertente, salvo risultare fatale quando muta nuovamente nel mondo di tutti i giorni. Ecco infatti che il protagonista, ‘ridiventato’ Alonso Chisciano, muore: “ebbe la gran fortuna di viver matto e di morir savio”.
E qui si insinua Brecht: “La regola è: occhio per occhio! Il folle si aspetta l’eccezione…Nel sistema che hanno costruito l’essere umani è un’eccezione”. È tornato il teatro politico, eccezione in mezzo alla regola”.

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