Pensieri stringati
3 Marzo 2015

Numero 11

di Paolo Simonato | 5 min

Esco di casa.

Un paio di mesi fa mi era parsa una buona idea iniziare una tabella di allenamento che mi portasse a migliorare il mio record personale sui 10 km coronando l’obiettivo proprio nell’anno del mio cinquantesimo compleanno.

Ma oggi non ho alcuna motivazione per andare a correre, mi sento stanco, privo di spinta. Oltretutto non avrò nessun compagno di fatica con me, perché Luca è ancora a Milano.

Le gambe mi sembrano dure, impacciate, e le prime falcate sono quasi goffe; invece di atterrare elasticamente sul terreno il piede ci va a sbattere con malagrazia, perfino il suono che si produce è ben lontano dal ritmo cadenzato, in levare, che di solito produco nella corsa.

Costeggio l’alberone: è il luogo dove di solito mi ritrovo con Luca, ci abbracciamo senza smettere di correre (un’arte che si mette a punto solo dopo anni di esperienza) e diamo avvio alle nostre conversazioni; mi domando se le mie sgradevoli sensazioni odierne siano dovute al fatto di essere da solo.

In altre parole: perché corro?

Me lo sono chiesto spesso e per quanto possa apparire strano dopo molti anni dedicati a questa attività mi accorgo che non ho ancora individuato una risposta che mi sembri del tutto soddisfacente.

Mi viene in mente che potrei provare oggi, approfittando della solitudine in cui svolgo il mio esercizio, ad affrontare una volta per tutte la questione.

Una prima risposta potrebbe essere quindi che corro per il piacere di parlare con qualcuno, per la particolare solidarietà e confidenza che spesso si crea con gli altri podisti, e con Luca in particolare.

E’ una forma di amicizia sui generis, fondata sull’equa partecipazione alla fatica: la strada è la stessa per tutti e la si percorre tutti assieme. In particolare ho sempre amato la maratona perché mi sembra lo sport più democratico che ci sia: giovani e vecchi, uomini e donne, abili e disabili, professionisti e amatori, si parte tutti assieme dalla stessa linea. La corsa come scelta ideologica, insomma.

Ma mentre cerco di sciogliere le braccia nella breve discesa che mi conduce al Torrione di San Giovanni qualcosa dentro di me mi avverte che sono lontano dal cuore della faccenda: di solito drappeggiamo in un secondo momento con motivazioni filosofiche scelte che all’inizio scaturiscono da moventi meno razionali.

Altra motivazione che mi sembra alla fine un po’ debole è quella salutistica: è vero che fare sport fa bene alla salute, ma entro certi limiti. E questi limiti io spesso li oltrepasso, per entrare nell’area in cui l’attività fisica è fonte di ulteriori disturbi come tendiniti e lombalgie, che a volte arrivano ad essere realmente invalidanti.

Un’altra possibile spiegazione si potrebbe ritrovare nel fatto che, per quanto possa apparire impossibile a chi non la pratica, la corsa sia un piacere in sé: alcuni momenti di sospensione, sfiorando il tappeto di foglie sulla mura, la testa vuota di pensieri, la sensazione pura di essere solo le proprie gambe, il proprio respiro, il proprio cuore, senza niente e nessuno attorno, hanno una valenza quasi estatica.

Sono rari, però, ammetto con me stesso mentre arranco lungo la banale salitella dopo la Casa del Boia.

La doccia dopo lo sforzo, quella sì che è impagabile, in particolare oggi che nonostante i 5 chilometri già percorsi sembro non riuscire proprio a trovare il mio passo.

Giunto alla catena in fondo a Viale Belvedere eseguo la tradizionale inversione a “U” e ritorno sui miei passi, rassegnandomi a lasciare ancora una volta in sospeso la questione e decidendo di convogliare tutte le mie energie sullo sforzo di rientrare a casa, proposito il cui raggiungimento oggi mi pare tutt’altro che scontato.

Sto ormai ripercorrendo i Rampari di San Rocco e scruto in basso a destra il malinconico profilo del vecchio Sant’Anna quando in lontananza riconosco Riki che sta portando a spasso Max, il vecchio boxer di Luca.

Mi avvicino a loro, scambio una battuta al volo con Riki e rallento per fare una carezza al cane.

Max, seduto sulle zampe posteriori, inclina lateralmente il capo, quasi a scatto, e mi fissa con i suoi occhi neri e tondi, intrinsecamente buoni. E’ ormai prossimo ai 12 anni, età molto avanzata per la sua razza; ha parecchi acciacchi e i peli attorno al muso, un tempo neri, sono ormai grigi. In basso a destra un canino sporge fuori dal labbro, conferendogli un’espressione un po’ bizzarra e sgangherata.

Mi dovrebbe conoscere bene, ma ora sembra non capire chi sono, cosa sto facendo; ciononostante accoglie senza scomporsi il mio gesto affettuoso.

Mi riavvio stringendo nel pugno il calore umido che mi ha trasmesso.

Penso alla costernata e placida rassegnazione con cui gli animali sembrano accettare la vecchiaia, e sento che c’è qualcosa in questo che mi tocca profondamente.

Le tenebre stanno ormai calando, corro senza vedere bene dove metto i piedi; improvvisamente un aggressore mi si avventa contro. Faccio un balzo indietro e subito mi rendo conto che era solo l’ombra di un albero, che avevo decodificato come una minaccia.

So bene cosa significano questi fenomeni: si chiamano illusioni affettive, accadono quando uno stimolo sensoriale poco strutturato viene interpretato dalla nostra coscienza sulla base di uno stato d’animo interno. Evidentemente c’è qualcosa che mi turba, al punto che non riesco nemmeno a sorridere tra me e me dell’episodio.

Proseguo con sempre maggiore fatica la mia corsa, il mio sguardo vaga attorno quasi alla ricerca di nuove possibili minacce e finisce per posarsi alla mia sinistra sulle luci del cimitero di via Caldirolo.

I lumini rossi e tremuli disposti con ordine di fronte ai loculi mi ricordano le caselle di una sinistra scacchiera lasciata incompleta da un solutore annoiato, che ha solo temporaneamente lasciato in sospeso il suo compito.

Perché corro, mi domandavo. Perché ho paura di morire, probabilmente.

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