Cento. Sono passati quasi otto anni da quel terribile 20 aprile del 2007, quando due coetanei e compagni dell’istituto Ipsia “Fratelli Taddia” di Cento lo chiusero nel bagno della scuola e abusarono di lui, filmando tutta la scena per diffondere il video tra gli altri studenti. Uno stupro in piena regola, che costò a suoi spietati artefici, due sedicenni (oggi 23 anni) di origine marocchina, una condanna a 4 anni e mezzo di reclusione (per violenza sessuale e pedopornografia) da parte del tribunale dei minori. Ma la vittima, all’epoca 15enne, non ottenne neanche un euro di risarcimento per quel crimine efferato e crudele che ancora oggi condiziona la sua vita. Il tutto per via di un punto assai controverso dell’ordinamento giuridico italiano: l’impossibilità di costituirsi parte civile in un processo che vede imputati dei minorenni. E, di conseguenza, il mancato diritto a chiedere un risarcimento per i danni subiti.
Una vicenda quasi assurda, soprattutto alla luce dell’esorbitante mole di cause civili in corso nei tribunali italiani. Circa 4,5 milioni: quasi l’intera somma di quelle che si contano in Francia, Germania e Inghilterra. Eppure la legge (Dpr n.448, 22/09/88, art. 10) parla chiaro: “Nel procedimento penale davanti al tribunale per i minorenni non è ammesso l’esercizio dell’azione civile per le restituzioni e il risarcimento del danno cagionato dal reato”. Neppure in situazioni di traumi gravissimi e permanenti, come possono essere quelli subiti dalla giovane vittima di questa vicenda, ora 23enne.
La sua storia infatti è di quelle ‘simbolo’ del problema del bullismo, tanto che all’epoca sollevò un polverone anche sui quotidiani nazionali. Il ragazzo, che soffre di un leggero deficit cognitivo, all’epoca dei fatti era uno dei bersagli preferiti dei ‘bulli’ della scuola, che lo schernivano per la sua obesità e che gli provocarono addirittura un serio infortunio a una gamba con uno sgambetto a tradimento. Fino a quell’esplosione di follia dell’aprile 2007, quando la loro crudeltà ormai senza freni culminò con lo stupro. Senza che nessuno degli educatori o del personale scolastico si accorgesse di quella situazione ormai drammatica o facesse qualcosa per fermare l’escalation di violenza.
Ed è proprio da quest’ultima riflessione che nasce la decisione del ragazzo e della sua famiglia. Che, dopo 7 anni di silenzio, hanno deciso di ricontattare i legali che li seguirono nel primo processo, Gianni Ricciuti e Michele Montanari, e di chiedere quel risarcimento sempre mancato proprio alle istituzioni che avrebbero dovuto vigilare sulla sicurezza degli alunni: l’istituto Fratelli Taddia e – in quanto responsabile in solido – il Ministero dell’Istruzione. “Tutto – spiega l’avvocato Ricciuti – verte attorno al fatto che i professori avevano sottovalutato la situazione, visto che sia gli alunni che il corpo docente erano al corrente del disagio che provava questo ragazzo e dei comportamenti di cui era vittima. Sarebbero potuti intervenire? Si, potevano vigilare, fare di più. Nelle testimonianze rese nel primo processo studenti e insegnanti hanno sempre detto di conoscere la situazione: non era un mistero per nessuno.
Nel frattempo il ragazzo è diventato maggiorenne, ci ha pensato su e ha preso coraggio, trovando la forza per affrontare nuovamente quello che è successo”. E per chiedere i danni al Ministero e a quella scuola che, dopo la condanna dei suoi due ex studenti, – al sicuro da ogni obbligo giuridico – non si fece mai avanti con la famiglia per cercare di rimediare, anche solo in parte, a quella terribile violenza avvenuta tra le sue mura.