Cronaca
27 Gennaio 2015
Dopo lo scoppio del cargo Cygnus ritrovata la valigia con il pletismografo ricucita a mano da una donna di Ferrara

Una sarta ferrarese ha salvato Drain Brain dall’esplosione

di Daniele Oppo | 4 min

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nasa“Non sapevo neppure che cos’era finché non ho finito, ma prima per me era una semplice borsa di tela”. E invece nelle mani di Marta Silvagni, 76enne ferrarese con l’hobby del cucito, non c’era una semplice borsa di tela, dalle dimensioni di un comune trolley da viaggio, ma una valigia destinata ad andare nello Spazio per portare sulla Stazione spaziale internazionale la strumentazione per l’esperimento di Paolo Zamboni “Drain Brain”.

Parliamo della ‘prima versione’ della strumentazione, quella che sarebbe dovuta partire nell’ottobre scorso e che invece si era persa con lo scoppio del razzo Antares, il vettore del cargo Cygnus (missione Orb-3). O almeno si pensava fosse andata distrutta: con una mail del 9 gennaio scorso la società Boeing ha comunicato ad Angelo Taibi, professore nel dipartimento di Fisica Unife e project manager dell’esperimento, che parte del carico era stato recuperato, compresa la valigetta che conteneva il pletismografo per l’esperimento Drain Brain.

PouchE proprio sulla valigetta c’è una piccola storia nella storia, che unisce l’alta tecnologia alle sapienti mani di una donna ferrarese con l’hobby del cucito, Marta Silvagni appunto.

Per portare in orbita il pletismografo, infatti, c’era bisogno di ‘impacchettarlo’ in due valige con spazi molto contenuti secondo i dettami della Nasa: una per l’unità elettronica e l’altra per le fasce con i sensori (e altro materiale). Una delle due messe a disposizione di Taibi dall’Agenzia spaziale italiana, era però leggermente più grande di quanto consentito e andava assolutamente ridimensionata perché la Nasa la accettasse.

“Quando è arrivato tutto il materiale Angelo (Taibi) mi ha detto: sono nei guai, chi ce lo fa questo lavoro?”, racconta divertito Paolo Zamboni. Le alternative erano tre: o fare il lavoro in casa, oppure farlo fare a dei professionisti del settore pagando cifre, o comprare una valigetta nuova già pronta, che nell’ottica del contenimento dei costi non rappresentavano proprio la soluzione ideale. “Così mi è venuta in mente la signora Silvagni che conosco da tanto tempo, da quando da ragazzo nuotavo con le sue figlie”, spiega Zamboni.

“Gli ho detto di andare dal calzolaio in via Bologna – racconta la signora Silvagni – pensavo fosse qualcosa in pelle, invece era una valigetta di tela, almeno a me sembrava di tela”. Il materiale è in realtà quello utilizzato anche per le tute dei piloti di Formula 1 o dei vigili del fuoco o degli astronauti: il Nomex, ignifugo e resistente ad altissime temperature. Una piccola borsa che sul mercato costerebbe probabilmente almeno un migliaio di euro.

“Era da rimpicciolire perché troppo alta – prosegue la donna, che si è occupata anche di cucire i sensori al velcro usato in parte della strumentazione -. Dovevo togliere il fondo e abbassarla un po’ e la volevo ricucire con un filo di cotone, ma poi Taibi mi ha portato un filo blu particolare (sempre in Nomex, ndr) e allora ho iniziato a farmi qualche domanda anche perché ho visto che era stato fatto in Danimarca”. Domande accantonate per un po’ di tempo, prima la buona lena per mettersi subito al lavoro e così “in una mattina ho tirato via la spugna usata per tenerla rigida che era spessa un centimetro e ho abbassato la ‘scatola’, tirando via il fondo che poi ho rimesso dentro cucendo con ago e filo a mano”.

Ma i dubbi rimanevano, finché Taibi non le ha spiegato che fine avrebbe fatto quella “scatola”: “Mi ha detto che doveva andare in orbita con la signora Cristoforetti e allora ho fatto uno più uno, perché la seguo e so che è capitano dell’aeronautica, mio marito è stato maresciallo dell’Aeronautica e queste le cose le seguo sempre”. Per fortuna l’informazione è arrivata a lavoro finito: “Se avessi saputo cosa avevo in mano sarei rimasta forse più suggestionata – afferma ridendo -, sul momento non gli ho dato nessun valore”. E invece il valore c’era, eccome. Anche grazie al lavoro ‘iper-artigianale’ eppure professionale di una sarta per hobby, la valigia – rimpicciolita e riempita di cuciture di rinforzo (sempre fatte a mano) – contenente la strumentazione non solo è potuta partire (anche se l’epilogo non è stato quello sperato), ma è anche rimasta integra salvandosi dallo scoppio del razzo vettore e dalle altissime temperature, così come il logo Unife.

“Per me è stato come rifare l’orlo a un pantalone, l’ho fatto per fare un piacere a Paolo – si schernisce la Silvagni -. Ma mi sono data tante di quelle punture al dito che quella valigia vale tanto solo per quello – scherza prima di tornare serissima -. Io non ho fatto nulla di particolare, quel che è particolare è quello che c’era dentro e nei due cervelli di scienza di Taibi e Zamboni, che sono ciò di cui questa Italia ha veramente bisogno. Certo che – conclude – arrivare alla mia età per fare certe cose non è mica male”.

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