Attualità
20 Febbraio 2020
Il ricordo del deportato politico di Davide Guarnieri, direttore dell’Archivio di Stato di Ferrara

È morto William Guidi, l’ultimo sopravvissuto ferrarese a Buchenwald

di Redazione | 5 min

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È morto lunedì scorso a 96 anni William Guidi, l’ultimo sopravvissuto della provincia di Ferrara al campo di concentramento di Buchenwald.

Pubblichiamo il ricordo di Davide Guarnieri, direttore dell’Archivio di Stato di Ferrara.

Il 17 febbraio ci ha lasciato William Guidi, sopravvissuto alla detenzione a Buchenwald e Dora, due Konzentrations Lager (KL) il livello praticamente più alto per durezza e disumanità dei campi dell’universo concentrazionario del Terzo Reich. Le sue parole che ho avuto l’onore di raccogliere, intrecciate ai pochi documenti ritrovati mi hanno permesso di ricostruire la sua storia.

Nacque a Migliaro il 24 luglio 1923. Nessuno della sua famiglia (oltre ai genitori, quattro figli maschi ed una femmina) si iscrisse mai al PNF. Il padre, a causa delle proprie scelte politiche, venne licenziato e, per poter sopravvivere, i ragazzi andarono a fare i sacrestani; il parroco poi riuscì anche a trovare per i Guidi una piccola casa a Migliarino. A 19 anni e mezzo fu arruolato: il 17 gennaio 1943 partì per Silandro (Bolzano) e diventò un gognometrista dell’esercito. Dopo pochi mesi si spostò in Croazia.

L’8 settembre 1943 partì con altri quattro compagni alla volta di Fiume: qui una famiglia diede loro degli abiti civili, seppellendo la divise in una buca nel cortile. Ben presto, però, tornarono a riprenderle perché qualcuno disse loro che se li avessero trovati senza documenti e in borghese, sarebbero stati subito arrestati. Nuovamente in divisa, arrivarono a Trieste: furono bloccati, forse anche perché trovati in possesso di una pistola, ed imbarcati su una nave per Venezia. «E’ la volta che andiamo a casa – pensò il signor Guidi – stavolta a scapén dabòn! E invece a Venezia ci hanno messo dentro ai vagoni bestiame». Prima di partire però, avvolse la sua catenina in un biglietto su cui aveva scritto l’indirizzo di casa e la lasciò cadere per terra, senza farsi notare. La madre, dopo molto tempo, ricevette una lettera nella quale si diceva che il figlio William era stato visto salire su un treno per la Germania.

«A èran fiss! Si facevano anche tutti i nostri servizi lì nel vagone!» Arrivò inizialmente nel campo per internati militari di Fürstenberg. Venne trasferito a Buchenwald, il 27 giugno 1944 e registrato con la matricola 32571. Chiude gli occhi mentre ricorda quel momento: «ho la fotografia dell’entrata di Buchenwald. Faccia conto, più in grande, come l’entrata a Ferrara della Prospettiva… c’erano le caserme [fa segno a sinistra]… e la prima cosa, subito, la disinfezione, poi a lavarsi e una puntura». All’arrivo Buchenwald gli presero la divisa. Gli diedero la giacca a righe «senza camicia, senza niente, con su il numero e il triangolo rosso», quello che contraddistingueva che si trovava lì per motivazioni politiche. Quando entrò nel lager ebbe l’impressione «c’as duvéva murìr! Loro poi te lo rammentavano: più lavori prima finisci di tribolare».

William Guidi

 

«Inizialmente mi ricordo che ho lavorato con un martello pneumatico, dove facevano scoppiare la roccia per fare delle gallerie. La prima botta l’ho presa lì (mi indica il mento) con un calcio» perché aveva smesso di lavorare. Nei mesi successivi fui picchiato non solo per punizione, ma anche per il semplice gusto di picchiare». Lavorò anche all’esterno del campo: «Andavamo a tagliare dei pini del bosco per fare le traverse dei binari. Si usavano le seghe a mano e io sono stato fortunato perché sono capitato con un polacco robusto». Per arrivarci attraversavano un paese e capitò che qualche civile sputasse addosso ai deportati.

Ricorda che di pidocchi ne avevano tanti: «c’era una stufetta, con il tubo e [fa il gesto di strofinarci contro la giacca] si sentiva cic cic… e morivano». Lavorava anche più di dodici ore al giorno, soprattutto quando andava fuori dal campo ed in quelle occasioni mangiava solo al ritorno in baracca: un pezzo di pane e della margarina. Beveva quello che trovava e per andare al gabinetto doveva chiedere alla guardia. «Andavi al gabinetto con la guardia li eh… Al ritorno in baracca, altro appello! Capitò anche che qualcuno che aveva tentato di scappare ce l’hanno portato lì in baracca, con il filo spinato [fa il segno che ne era avvolto]. “Vedete cosa succede a chi ha tentato di scappare!”». Dei forni crematori venne a conoscenza solo dopo la liberazione; vide uccidere una sola volta un compagno, con un colpo di pistola.

Inizialmente teneva il conto dei giorni che trascorrevano. Non strinse amicizia praticamente con nessuno ad eccezione di Natale Marinelli di Lagosanto: era una persona molto dimagrita ma con un fisico robusto. Un giorno non lo vide più. Non era nella sua baracca, ma si erano conosciuti per caso, perché parlando avevano capito di essere ferraresi.

Del suo trasferimento a Dora, dove giunse il 26 luglio 1944, non fu avvisato in anticipo. Anche in questo campo inizialmente fu adibito a tagliare dei pini, ma «la mia fortuna è stata lavorare con sempre al mio fianco una guardia». Un giorno gli chiese qual era il suo mestiere e Guidi rispose: «il sarto». Non era vero, però si rivelò la sua salvezza. Lo portarono in una stanza, dove c’era uno slavo: e così iniziò a rammendare e riparare le divise. «C’era una guarda che mi veniva a prendere al mattino, mi chiudeva nella stanza con un cane e io mettevo apposto le calze. Se il cane non mangiava la sua pappa, la mangiavo io!».

Capì che le cose stavano cambiando quando iniziarono a diminuire l’intensità e la frequenza delle violenze, la foga di rinchiudere e punire: «ormai se le davano tra di loro. C’era nell’aria ‘sta cosa». E la presenza nel cielo sempre più frequenti di aerei alleati non fece altro che confermare in Guidi la sensazione di cambiamento. Un giorno li caricarono nuovamente sui vagoni e li portarono in un bosco. Ad un certo punto, non sentendo più alcun rumore, decisero di aprire le porte: le guardie erano sparite. Passarono diversi giorni vagando per i campi, fino all’arrivo degli alleati.

Finalmente poi, il ritorno in Italia: un viaggio interminabile parte in camion parte a piedi. Raccontò anche nel suo paese la sua terribile esperienza ed in parte anche in famiglia, ma volle dimenticare tutto per tentare di ritrovare la serenità. «Inizialmente non dormivo nel letto, ma per terra. C’era la gioia di essere a casa, ma eri anche in confusione… “ma a son dabòn a ca?”», si ripeteva.

Sono onorato di aver conosciuto il signor William Guidi e di aver potuto raccogliere la sua preziosa testimonianza. Perpetuare il ricordo della sua tragica esperienza resterà uno dei doveri della mia vita.

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