Attualità
7 Ottobre 2019
Italia e Svezia a confronto sull’attualissimo tema per l’ultima giornata di Internazionale

Figli, lavoro e società. Quanto ci costa la famiglia?

di Redazione | 3 min

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“Un italiano su due pensa che le donne dovrebbero stare a casa e gli uomini al lavoro. In Svezia a quanto pare, anche se lo pensassero, non lo direbbero mai, per lo meno ad alta voce”. Il provocatorio e lampante sondaggio di ‘ingenere.it’, di cui si fa portavoce Barbara Leda Kenny, apre come un siparietto l’incontro di Internazionale dedicato a ‘Quanto ci costa la famiglia’.

Da una parte c’è la famiglia ‘all’italiana’, o la “famiglia Mulino Bianco”, come la descrive ironicamente l’economista Francesca Bettio, l’archetipo tramandato dai nostri secoli che, ad oggi, conta le donne italiane dedicare 2 ore in più al giorno al lavoro domestico rispetto alle donne degli altri Paesi.

Un dato che se moltiplicato per settimane, mesi ed anni, “fa presto a darci un’idea di quanto ci costi, questa famiglia”. E il vero costo, lo si traduce anche negli psicofarmaci, di cui le donne italiane sono più consumatrici, o nel fatto che la maggior parte di quelle con bambini piccoli, che siano single o accompagnate, si dichiarino comunque “infelici”.

Dall’altra c’è il modello svedese, patria e paradiso della parità fra i sessi, “di cui immagino siate qui per sentirne raccontare la favola – esordisce la giurista e attivista svedese Mirjam Katzin – anche se alla fine purtroppo dovrò deludervi”. La delusione tarda ad arrivare, soprattutto alle orecchie italiane, sentendo parlare di “congedo parentale fino a 18 mesi sia per l’uomo che per la donna, con l’80% di retribuzione” e di “ottimi servizi pubblici a bassissimo costo” che rendono possibile la ‘favola’ di essere madri lavoratrici “senza abbandonare né i figli per il lavoro, né se stesse per la famiglia”.

Ed è anche sicuramente una questione culturale, delinea Katzin, “perché da noi ci si aspetta dai padri quello che ci si aspetta dalle madri, e ci si aspetta che le donne abbiano altro oltre la famiglia, senza che per questo ci si debba sentire in qualche modo in difetto”.

Ma tutto ciò che ha reso il welfare il punto di forza della Svezia “si sta negli ultimi anni lentamente deteriorando – illustra Katzin – a partire dalla politica migratoria, che sta degradando. Inoltre, molti degli ottimi servizi che abbiamo ottenuto con i soldi pubblici, stanno pian piano andando in gestione di privati, che ovviamente lucrano su questo, rendendo inevitabilmente alcuni servizi più scadenti, e riportando la donna alla scelta di dedicare il suo tempo a casa e famiglia, e al fatto che sia sensata questa decisione”.

E a proposito di qualità dei servizi si aggancia anche Francesca Bettio, mettendo a paragone la nostra società “dei nonni”: “In Italia il 30% delle persone che lascia il lavoro perché nasce un figlio, lo fa perché ‘non ha i nonni’. E questo non è solo dovuto alla concezione culturale del ‘fare tutto in famiglia che è meglio’, ma anche al fatto che le nostre famiglie non possono contare su una qualità del servizio di cui una coppia senza nonni si possa avvalere. Da noi gli asili, quando non sono troppo costosi o inaccessibili, coprono a stento l’orario lavorativo del genitore”.

Il settore della cura, che va dal bambino, all’anziano, al disabile, è un settore su cui “il nostro Paese dovrebbe puntare, e col quale riuscirebbe senz’altro a risalire – secondo Bettio -: ma purtroppo ancora una volta il nostro Paese ha dimostrato una resistenza allo sviluppo in tal senso: è il settore infatti che abbiamo relegato all’accezione di ‘badantato’, assumendo persone prevalentemente straniere non in regola, e pagate pochissimo. E’ un settore con un’enorme richiesta, e dove c’è domanda, è poco furbo non investire”.

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