Eventi e cultura
11 Maggio 2019
Il film di Petri e Pirro torna, ma a teatro nella versione di Longhi e con protagonista Lino Guanciale

La classe operaia non è andata in paradiso… fino a ora

di Redazione | 4 min

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(foto di Giuseppe Distefano)

di Federica Pezzoli

“La classe operaia va in paradiso” torna, non al cinema, ma a teatro e – in replica fino al 12 maggio – chiude la stagione di prosa del Teatro Comunale Claudio Abbado di Ferrara.

“Sulla coda del film, in una breve e significativa scena, l’operaio Lulù Massa girovaga per la sua casa catalogando a uno a uno gli oggetti lì presenti e recitando una personale, e straniante, litania domestica: a ogni cosa risponde un costo, a ogni costo delle ore lavoro. Mutatis mutandis, nella sua concisione quella scena, dalle tinte bluastre e dai toni buffi, parla molto alla (e della) nostra epoca dominata dal consumo ultraveloce – espresso e spersonalizzante grazie al potere della rete”: è un estratto delle note di regia di Claudio Longhi che sintetizza bene l’operazione culturale che lui, il drammaturgo Paolo Di Paolo e Lino Guanciale, nel ruolo di Lulù che fu di Gian Maria Volontè, mettono in scena con questo adattamento teatrale del film di Elio Petri e Ugo Pirro.

Nel nostro presente post-moderno e post-ideologico, a quasi dieci anni dall’ultima crisi economica mondiale, non si può che guardare in maniera disillusa alla pellicola e al contesto che descrive: ecco perché tutto lo spettacolo è costruito attorno alla sceneggiatura di Elio Petri e Ugo Pirro e ai materiali che testimoniano la genesi del film così come la sua ricezione, nonché attingendo a piccoli capolavori della letteratura italiana degli anni Sessanta e Settanta. Lo si descrive e lo si analizza con uno sguardo ‘esterno’ moltiplicando i piani.

C’è la storia paradigmatica di Lulù, l’uomo “che credeva di essere una macchina” e che a un certo punto si è rotto: racconta dello svuotamento di sé, della trasformazione dell’uomo in strumento produttivo. Le prestazioni lavorative sono inversamente proporzionali a quelle sessuali, l’uomo produttivo per il capitale perde la capacità riproduttiva, il sesso è meccanico, è prestazionale. Il corpo si misura in prestazioni, il corpo è macchina; e così pure il sesso.

Accanto, dentro, intorno, viene proposto non solo lo scontro per ‘l’anima’ degli operai tra organizzazioni studentesche e organizzazioni sindacali, ma anche il racconto della genesi del film e del clamore che suscitò: ai personaggi della pellicola si affiancano gli interventi del regista stesso e dello sceneggiatore, sul processo creativo della pellicola o sulle reazioni che sollevò, oppure quelli degli spettatori nelle diverse epoche storiche o ancora di alcuni intellettuali e opinionisti degli anni Settanta.

Un grande affresco corale che si regge sulla bravura e l’affiatamento di tutta la compagnia: Diana Manea, nel ruolo che fu di Mariangela Melato, Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, rispettivamente Elio Petri e Ugo Pirro, Simone Francia, Eugenio Papalia, Franca Penone che interpreta Militina, la coscienza operaia così lucida da diventare folle, nel film con il volto di Salvo Randone.

Tutti trascinati da una forte interpretazione di Lino Guanciale, grande nei cambi psicologici e fisici del personaggio. E poi c’è il cantastorie Simone Tangolo che ogni volta, come il grillo parlante, ci ricorda, attraverso le ballate di Fausto Amodei, che la storia che si sta dipanando sotto i nostri occhi parla ancora di noi.

L’unico paradiso realizzato per la classe operaia è quello del consumismo perché è “un miracolo solo economico il nostro”. Oggi che “siamo tutti liberi e soli”, la consapevolezza di classe è un’idea che abbiamo perso, la condizione invece intesa come dimensione sociale è ancora una verità del presente. La coscienza di classe, oggi si fa liquida, per dirla con Zygmunt Bauman. Gli operai, quasi del tutto sostituiti dai robot nelle fabbriche, li troviamo in giro per le città, in bici o meno, a consegnarci nel minor tempo possibile, a cottimo, cose per lo più inutili. Li troviamo nei grandi magazzini o nel settore della logistica.

Li troviamo con gli occhi fissi sui loro pc in sfavillanti coworking a portare a termine il progetto legato a quel contratto precario che non garantisce loro nulla. Non c’è alienazione nello stare per ore e ore davanti allo schermo di un pc senza differenza fra il tempo del lavoro e il tempo libero? L’obiettivo non è ancora la massima produttività il massimo della performance? Non si cercano ancora sempre nuovi strumenti per monitorare i tempi di produzione?

Eppure il lavoro, anche fra co.co.co, voucher e tutele crescenti, è (ancora?) strumento essenziale per la dignità di ciascun essere umano. “Lavorare non è vergogna, non lavorare è vergogna”, dai tempi di Esiodo fino a oggi, passando per l’articolo 1 della nostra Costituzione: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.

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