di Cecilia Gallotta
‘Sulla mia pelle’. Un titolo, una frase, un contenuto, che Ilaria Cucchi conosce molto bene. E come lei, le centinaia di persone a cui è capitato di viverle. Lunedì sera, fra i posti tutti esauriti del Boldini, c’erano anche i fratelli Emanuele e Francesca Verri, e Donata Bergamini, la sorella di Denis. È a tutti loro che è dedicata la prima ferrarese del toccante, crudo e nudo film di Alessio Cremonini, che si è meritato “l’entrata ufficiale fra i 21 film italiani candidati agli Oscar”, annuncia il direttore di Estense.com Marco Zavagli, appena dopo la proiezione che narra i “brevi eppure interminabili” ultimi sei giorni di Stefano Cucchi, dalla sera del suo arresto per spaccio e detenzione di stupefacenti, il 15 ottobre 2009, al giorno del suo decesso, il 22.
In questa “via crucis” fatta di omertà e convenienza, il film mette al centro Stefano, prima che diventasse ‘il caso Cucchi’, la sua persona, e la sua famiglia, “integerrima, con un incredibile rigore morale – afferma l’avvocato Fabio Anselmo – con un profondo rispetto per lo Stato, il quale, non ne ha avuto altrettanto”. L’antitesi, che arriva al paradosso, si esplicita nell’impossibilità della famiglia di poter vedere Stefano “da vivo, e neppure da morto”, recita una straziante Jasmine Trinca nel ruolo di Ilaria, sempre ligia di fronte alle ‘scartoffie’ richieste per poter fare visita a un detenuto – seppur figlio e fratello – dopo aver saputo del suo trasferimento, che sarà l’ultimo, all’ospedale Sandro Pertini. E averlo potuto rivedere soltanto col volto tumefatto e mangiato dall’inedia.
“Mi si ribatta che non sempre è così – tuona Anselmo – ed è vero”. Ma se non si può fare di tutta l’erba un fascio, è altrettanto vero che “nessuno alza un dito”, chiosa, portando a esempio i provvedimenti disciplinari e le difficoltà lavorative riscontrate da Riccardo Casamassima, uno dei carabinieri che aiutò a riaprire il caso dopo la sentenza che assolveva i tre carabinieri per omicidio preterintenzionale. “Ed essere penalizzato per aver confessato, non è un buon segnale”.
La verità del resto, processi e giudizi a parte, “è che mio fratello è morto di dolore – afferma Ilaria – e il pregiudizio è stata una delle cause”. “C’erano almeno 140 persone, in quei sei giorni, fra pubblici ufficiali, medici, agenti, infermieri – incalza Zavagli –. Come il giudice, che per tutto il tempo del colloquio – riprende la scena – prima di ordinare la custodia cautelare, guarda in basso. Bastava che alzasse lo sguardo, come gli altri 140, e vedesse”.
“Quando tornai a casa, dopo averlo visto ridotto così, mi venne subito in mente un altro volto – racconta Ilaria – quello di Federico Aldrovandi. Così cercai il telefono dell’avvocato che aveva seguito il suo caso, e chiamai Fabio”. Con Aldrovandi, Cucchi non ha in comune solo ‘il caso’ e l’iniziale “damnatio memoria”, come afferma Zavagli (“uno era il tossicodipendente e l’altro un energumeno che faceva volare gli agenti a mosse di arti marziali”), ma anche la curva Ovest, da sempre vicina ai casi giudiziari, che dedica a Ilaria, “la nostra guerriera” uno striscione all’ingresso del cinema.
“Per questo sono particolarmente emozionata di essere qui, a Ferrara – trema la voce di Ilaria – dove ‘tutto’ cominciò. E perdonate se sono uscita dalla sala durante la proiezione. Questo film l’ho visto tre volte, e non vorrei rivederlo più. Perché l’ho vissuto, e rivissuto. Sulla mia pelle”.
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