Attualità
1 Giugno 2018
Spazio anche per le opinioni dell'ex magistrato: "Non credo più che il carcere serva per evitare che le persone commettano reati. Il lavoro serve al reinserimento"

L’ex pm Colombo insegna le regole ai detenuti: “Non si può vivere senza e partono dalla Costituzione”

di Redazione | 4 min

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Prima si sposta dal tavolo dei relatori, piazzandosi al centro della sala teatro del carcere dell’Arginone facendo girare tutti, detenuti e ospiti, in modo circolare. Poi saluta un detenuto che aveva già incontrato a San Vittore poco tempo addietro e che dovrebbe uscire tra cinque mesi, poi instaura un dialogo che si colloca un po’ a metà tra il provocatorio e lo show. “Per parlare di regole partirei dalle mie dimissioni ormai 11 anni fa dalla magistratura dopo 32 anni da magistrato con la giustizia che ancora funziona malissimo. Una matttina mi sono svegliato e mi sono chiesto se non ci fosse qualcosa da fare prima delle sentenze e dei tribunali, e avevo capito che il problema era la relazione tra noi e le regole, se non la capiamo non c’è giustizia”.

L’ex magistrato di ‘Mani pulite’ Gherardo Colombo, nella sua visita ai detenuti e alla casa circondariale di Ferrara di giovedì racconta e si racconta al tempo stesso davanti a una platea che oltre al direttore del carcere Paolo Malato e alla garante Stefania Carnevale — che lavorò anche con lui, per circa un anno — vede dirigenti di un po’ tutte le amministrazioni dello Stato legate in qualche modo alla giustizia, dalla prefettura alla questura, dal Comune ai carabinieri, dalla Municipale ai garanti regionali. “Quando sentite la parola regola voi esultate o vi cascano le braccia?”, esordisce, per poi spiegare cosa sia una regola, secondo lui, ovvero “uno strumento per raggiungere un risultato. Se siete qui è perché non avete rispettato le regole: non le leggi ma quella su come si fanno le rapine ad esempio, altrimenti non sareste qui dentro. Poi non è bello lo stesso, non perché è illegale ma ma perché la vittima si spaventa”.

E, partendo da questo, si può vivere senza regole? No, è la risposta. “Non si possono fare le torte di mele senza le mele, Poi si possono inventare regole nuove e migliorarle, la prima torta di mele probabilmente faceva schifo, ma senza regole niente torte”. E, ad introdurle, è sempre la comunità nel suo complesso perché “quando non le accoglie non le rispetta”. “Ci fu anche chi scrisse un dizionario del gergo carcerario”, spiega ancora Colombo nel suo intervento di circa un’ora e mezza, “ed è perché si usa un linguaggio diverso che avete scelto — e quindi regolamentato, nda — voi”. Le regole, alla fine, “servono per fidarsi degli altri, e nonostante quello che si dice credo che la devianza in questo Paese sia simile a quella degli altri”.

“Prima di capire il resto delle regole, però, bisogna partire dalla Costituzione”, si apppella Colombo, “perché partono tutte da lì”. “La prima regola di base — continua — era la discriminazione: qualcuno vale tanto e qualcino niente. Le donne hanno votato per la prima volta nel 1947, poi questo concetto è stato rovesciato dai costituenti: le differenze non possono discriminare, non possono interferire nella realizzazione dell’individuo. Perché è cambiato questo modo di vivere? Perché i costituenti avevano vissuto la guerra. Per noi 55 milioni di morti sono solo un numero, ma poi quanti sono tornati senza un braccio, senza vista, senza udito dopo i bombardamenti? L’atomica poi aveva cambiato tutto, e il primo pensiero fu ‘come facciamo a evitare che queste cose si ripetano?”. Il problema, comunque, è sempre quello di seguirle e rispettarle, le regole, è non è facile: “C’è un sistema penalizzante: le regole formali dicono che si sta insieme per armonia, quelle sostanziali che invece contano forza e furbizia, quindi si creano a cascata altre regole. Siamo tutti affetti dalla convinzione che qualcuno meno degno lo si trova sempre. La comunità vuole un carcere più duro, voi non sareste d’accordo. Ma se si parlasse di sex offenders? E di pedofili? Ecco che la prospettiva cambia”.

Colombo infine svela una parte di se stesso e della sua vita da magistrato: “Mettere gente in prigione mi è sempre pesato, è sempre stata una pena soprattutto quando esistevano dei rapporti familiari: arrivava in ufficio la compagna con il figlio di un arrestato e mi chiedevo chi fossi io per togliere il padre a un bambino. Ancora oggi non ho una risposta, però credevo che il carcere servisse alla gente per smettere di commettere reati. Ora non più: tutti siamo risorse, e credo che il lavoro sia utilissimo per favorire il reinserimento”.

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