Politica
11 Maggio 2018
L'ex presidentessa della commissione parlamentare a Ferrara per la firma di un protocollo di collaborazione tra l'associazione Avviso Pubblico e il dipartimento di Giurisprudenza

Rosy Bindi: “Non siamo solo il Paese delle mafie, ma anche dell’antimafia”

di Redazione | 6 min

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(foto di Alessandro Castaldi)

di Martin Miraglia

È di una mafia multiforme e sempre prona al cambiamento che favorisca se stessa senza snaturare le proprie tradizioni il tema del dibattito che ha visto impegnati gli attori più importanti del movimento antimafia, tra i quali spicca l’ex presidentessa della commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi, giovedì al dipartimento di Giurisprudenza per celebrare la firma di un protocollo di collaborazione tra l’associazione Avviso Pubblico e lo stesso dipartimento dell’Università estense.

E’ proprio lei a raccontare i suoi ultimi quattro anni di lavoro, conclusi lo scorso febbraio: “L’obiettivo è stato di cercare di capire la mutazione del fenomeno mafioso nel nostro Paese per organizzare la lotta contro le mafie di oggi. Le mafie hanno questa caratteristica: riescono a mutare ma rimangono molto simili a sé stesse. Questo lavoro non l’abbiamo fatto da soli: il lavoro della magistratura è indispensabile, il giornalismo d’inchiesta è ancora molto vivo per fortuna in questo Paese, ma ritenevamo che servisse un sigillo istituzionale sullo studio della mafia e dell’antimafia. Addirittura abbiamo fatto un’inchiesta sull’antimafia, perché abbiamo riscontrato dei segnali di crisi nel movimento”.

Bindi rincuora poi gli studenti presenti all’iniziativa: “Sia ben chiaro: andate orgogliosi quando vi trovate nelle sedi internazionali perché non siamo il Paese delle mafie. O meglio, siamo il Paese delle mafie, non lo neghiamo, al contrario di molti altri Paesi che lo stanno diventando e si ostinano a non accorgersene e a rimuovere il fenomeno. Ma noi siamo anche il Paese dell’antimafia: il sud Italia non ha dato solo Totò Riina e Provenzano, ma anche Borsellino e Falcone al mondo. Non siamo soltanto il Paese in cui la politica è stata collusa con le mafie, siamo anche il Paese in cui i politici con la schiena dritta sono stati ammazzati dalla mafia perché ne hanno organizzato il contrasto. Abbiamo questa grande ricchezza che è delle nostre istituzioni, della magistratura, delle forze di polizia: siamo l’unico Paese ad avere uno strumento legislativo dedicato esclusivamente alla lotta alla mafia che ci ha fatto ottenere grandissimi risultati in questi anni. Non l’abbiamo vinta ma l’abbiamo piegata, sicuramente abbiamo sconfitto la mafia delle stragi. Guai a dimenticare quel periodo, ma anche a dimenticare i risultati che abbiamo ottenuto”.

Nonostante questo, però, la crisi permane: “Abbiamo visto casi che fanno molto male, come simboli come membri della Confindustria siciliana poi coinvolti in inchieste giudiziarie. Molti hanno ironizzato sull’inchiesta sull’antimafia, c’era tutt’altro che da ironizzare perché se la crisi investe il movimento antimafia è difficile poi fare appello alle coscienze, ma noi siamo arrivati alla fine e abbiamo concluso che il problema non sono delle mele marce qua e là, ma che c’è un movimento antimafia che è una grande ricchezza per questo Paese che va aggiornato per combattere le mafie di oggi, il problema è culturale. Va laicizzato il movimento antimafia, deve uscire dalla cerchia degli specialisti. Dev’essere patrimonio comune”.

“L’impegno di un’associazione come la nostra non può fare a meno di una relazione con il mondo accademico, c’è la necessità di costruire un’alleanza tra tutte le forze sane del Paese che hanno competenze, ruolo e conoscenze”, spiega il presidente di Avviso Pubblico Roberto Montà lanciando un monito: “Se non lo prendiamo sotto questo punto di vista combattiamo una partita senza essere in grado di mettere in campo tutte le energie che abbiamo a disposizione. Qui si formano le nuove classi dirigenti del Paese ed è fondamentale che abbiano ben chiaro qual è il profilo da punto di vista economico, sociale e di infiltrazione nelle istituzioni del fenomeno mafioso, che in qualche modo rende il nostro Paese meno competitivo e meno libero e rende la nostra democrazia più fragile”.

“Ascoltavo le stime del Pil e il nostro Paese cresce la metà degli altri”, continua poi Montà. “Ci sono tante ragioni, ma tra queste anche una presenza acclarata di un fenomeno mafioso che ha stretto rapporti con le istituzioni che in qualche modo sta conducendo una fisiologia. Questi temi, nonostante la loro rilevanza economica e istituzionale, non ci sembra che la politica a livello nazionale li abbia considerati come quelli sul quale impostare un’agenda. Dobbiamo far crescere una domanda di legalità e di prevenzione del fenomeno mafioso. Questa necessità di innalzare la sensibilità e la repulsione nei confronti del fenomeno mafioso — con la linea della palma che è salita sempre più al nord — l’impegno delle amministrazioni locali deve cambiare pelle e non scadere nella retorica delle celebrazioni che hanno un valore straordinario ma dopo un po’ di tempo passa”. La nuova mafia, del resto, “non è più quella delle stragi. Abbiamo 8mila Comuni in Italia, spesso quelli sciolti sono quelli piccoli dove il condizionamento è molto più forte. A votare alle amministrative però va il 50%: il fatto che i cittadini non partecipino alla vita democratica, non vadano a votare, non si sentono parte di una comunità impegnata insieme all’istituzione su questi temi è una grande debolezza”.

A smentire che le istituzioni non si siano accorte del fenomeno o che non siano aggiornate sui continui mutamenti della criminalità organizzata ci pensano però Gian Guido Nobili, responsabile dell’area sicurezza urbana e legalità della Regione, e l’assessore alle politiche sociali Chiara Sapigni. “Come Regione sentiamo spesso che non ci sia stata attenzione verso il fenomeno, ma già nel 1997 ci fu la prima convenzione in questo senso”, spiega il primo. “Questa è la dimostrazione di come gli enti locali vogliono mantenere alta l’attenzione, abbiamo toccato con mano che non ci sono territori al riparo da fenomeni di infiltrazione”, è il commento della seconda che poi cita anche gli eventi organizzati in seno alle iniziative antimafia. Qualcosa da dire però, sulla gestione dell’antimafia, ce l’ha in merito ai beni confiscati “che sono ancora un vulnus”.

“Molti sono stati utilizzati, ma una villa nel comune di Argenta ancora non si riesce a sfruttare”, spiega l’assessore. “Questo perché i proprietari precedenti ci hanno messo molto tempo a lasciare l’immobile, il giorno successivo è stata vandalizzata dagli infissi ai sanitari, quindi il Comune di Argenta si trova con un bene teoricamente di valore in pratica abbandonato per il quale servirebbero un sacco di soldi per metterlo a posto, ed è difficile andare a investire centinaia di migliaia di euro su questo. Si è cercato di arginare queste difficoltà, ma per metterlo in vendita — posto che non volevamo perché vuol dire teoricamente rimetterlo in mano a chi lo aveva prima — servono una serie di passaggi, nulla osta e verifiche complicatissime. Siamo in difficoltà, e nel frattempo la casa va in malora, è evidente. Come facciamo che alcuni beni tornino davvero alla comunità?”. È una domanda alla quale per ora non c’è risposta, ma che riceve il favore della Bindi, quasi stizzita in alcuni frangenti: “Vogliamo sollevare almeno queste spese dal patto di stabilità”, dirà più tardi.

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