Attualità
23 Gennaio 2018
Dopo il disfacimento dell'esercito "il primo anno di resistenza collettiva al fascismo". Al ritorno dai campi però ci fu una "non accoglienza"

Giorno della Memoria, fra “l’Italia sana del 1943” e “l’indifferenza al ritorno dai lager”

di Redazione | 3 min

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di Simone Pesci

“A maggio del 1945 si contavano 45 milioni di morti, 40 milioni di persone sfollate o spiazzate, 20 milioni di orfani, 13 milioni vittime di crimini nazisti e 7 milioni di lavoratori forzati”. E’ la voce di Luciana Roccas Sacerdoti a rendicontare il triste bilancio della seconda guerra mondiale, e a dare sostanzialmente il via alle commemorazioni della Giornata della memoria del prossimo 27 gennaio.

Una Roccas che, in un’aula magna di giurisprudenza in silenzio e con il fiato sospeso, ricorda quegli anni che hanno profondamente segnato l’intera storia dell’umanità: “Tutti i governi, dal 1942, sapevano cosa accadeva nei lager, ma nessuno ha fatto nulla perché la loro politica prevedeva solamente la sconfitta di Hitler”.

E, sulle liberazioni dei campi di concentramento avvenute per merito delle truppe russe e angloamericane: “I soldati si trovarono di fronte ai lager per caso. Alcune testimonianze ci dicono di come rimasero sorpresi dal vedere le persone vestite di stracci a righe, con la faccia scavata dalla fatica e dalla fame. Altre, invece, rivelano come il ritorno degli ebrei italiani a casa fu segnato da una non accoglienza e dalla diffidenza”.

Un’altra Italia, invece, viene alla luce grazie a Liliana Picciotto, autrice del libro “Salvarsi- Gli ebrei d’Italia sfuggiti alla Shoah 1943-1945”. L’opera, infatti, nasce dopo un lavoro certosino dell’autrice, che ha intervistato più di 600 testimoni e che ha permesso “dopo una ricerca qualitativa di avere dati quantitativi”, in maniera tale da riuscire a stabilire l’atteggiamento della società di allora nei confronti della Shoah. E quello che emerge è un atteggiamento positivo: “Ci sono stati centinaia di episodi di soccorsi; molta generosità privata che nemmeno ci aspettavamo; decine di famiglie che hanno accolto persone in pericolo, altri che hanno prestato soldi o che hanno accompagnato gli ebrei alla frontiera”.

E se per Picciotto è difficile “dividere i protagonisti in categorie”, è facile dividere due periodi storici, perché fra il 1938 e il 1942 “gli episodi di solidarietà si contavano sulle dita di due mani”, dal 1943 al 1945 “la gente ha cominciato a reagire, e si può affermare che l’Italia era più sana di quello che ci aspettavamo”.

“Quando l’esercito italiano – racconta l’autrice – si è disfatto, migliaia di ragazzi hanno smesso la divisa. E, per non combattere con nazisti e fascisti, hanno cominciato a nascondersi: avevano bisogno di abiti civili e la popolazione ha iniziato a regalare loro chi una camicia, chi un paio di scarpe. Quello è stato il primo anno, il 1943, di resistenza collettiva al fascismo, e ha rovesciato la visuale del popolo italiano”.

La direttrice del Meis, Simonetta Della Seta, definisce il libro di Liliana Picciotto un “testo fondamentale per capire l’esperienza della Shoah”, e  “una testimonianza incredibile della storia del nostro Paese, senza il quale molte cose che stiamo facendo al Meis sarebbe impossibile farle”.

Della Seta rivela di aver scoperto  3 cose grazie al libro: “La prima è che il testo è una lezione metodologica per chi studia la storia della Shoah, la seconda è che gli ebrei per salvarsi hanno spesso dovuto passare nell’illegalità, quindi oltrepassare quel confine fra la legge che dobbiamo rispettare e il momento in cui ci accorgiamo che quella ci perseguita”. La terza, nell’ordine della direttrice del Meis, non è certo la meno importante: “In questo libro ho ritrovato mio padre: a un mese dalla sua scomparsa ho letto le sue parole”.

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