Spettacoli
21 Gennaio 2018
A Ferrara Il Mulino di Amleto con “L’albergo del libero scambio”, irresistibile farsa sull’ipocrisia della morale borghese di ieri e di oggi

Quello che facciamo per sembrare quello che non siamo

di Redazione | 3 min

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di Federica Pezzoli

Utilizzare un testo francese della fine dell’Ottocento per descrivere e provocare il pubblico italiano di oggi? È una sfida rischiosa, per teatranti irriverenti e coraggiosi, con il giusto equilibrio fra disciplina ferrea e un pizzico di spavalda follia.

La compagnia Il Mulino di Amleto, a Ferrara per la seconda volta in questo gennaio 2018 con “L’albergo del libero scambio” nella versione di Davide Carnevali, ha centrato in pieno l’obiettivo.
Tre repliche – due pomeridiane e un sabato sera – da venerdì 19 a domenica 20 gennaio sul palco del teatro comunale Claudio Abbado di Ferrara per questo gruppo di under 35, guidato dal regista Marco Lorenzi, che era già stato nella città estense all’inizio del 2016, con un allestimento de “Gli innamorati” di Goldoni con musiche dei Marlene Kuntz.
Per questo lavoro su “L’albergo del libero scambio” di Geoges Feydeau Davide Carnevali e Marco Lorenzi sono partiti chiedendosi cosa significasse per la borghesia parigina rivedersi messa in scena in quel modo: un intreccio di farsa, vaudeville, commedia degli equivoci e anticipazioni del teatro dell’assurdo, che ruota intorno a un tentativo di adulterio mai riuscito, insomma al tabù dell’eros, inaffrontabile dalla morale borghese perbenista e ipocrita.

“E’ stato un avvicinamento progressivo”, ha spiegato Marco Lorenzi nell’incontro con il pubblico al termine della replica di venerdì pomeriggio, “quello di Feydeau è un testo complicatissimo da mettere in scena, che tratta temi non facili da affrontare anche oggi”.

La chiave di volta usata da Carnevali nella sua traduzione-riscrittura è una vera e propria risemantizzazione del testo di Feydeau che ne mantiene la trama e soprattutto la natura di teatro popolare, nel senso di ‘pop’; mentre Lorenzi e la compagnia riescono a strizzare l’occhio al pubblico provocandolo con leggerezza e attraverso intuizioni sceniche veramente indovinate.
Il risultato è una macchina comica dalla precisione impeccabile, arguta e tagliente quanto irresistibilmente irriverente, che smaschera le brutture e le ipocrisie di un convivere (a)sociale, che ha assunto oggi toni persino più falsi e feroci rispetto all’epoca dell’originale.

In scena ci sono “la volgarità, l’arroganza e la sterilità persino della nostra società di oggi”, afferma ancora Lorenzi, finanche le sue “ambiguità”. L’intelligenza – e il coraggio – di tutta l’operazione, di Carnevali, di Lorenzi e degli attori, sta però nel trovare soluzioni per lasciarle scorgere allo spettatore che, in realtà, sta guardando le proprie idiosincrasie, le proprie ipocrisie, il proprio terrore che qualcosa cambi, “l’impossibilità nostra e dei personaggi di avere il coraggio di tentare di fare qualcosa che possa cambiare il ridicolo stato di equilibrio in cui tutti si trovano e ci troviamo”, come sottolinea ancora il regista. L’unica a voler svelare “la parte più intima che nessuno fa mai vedere”, a essere sinceramente onesta, è Vittoria, la cameriera. E proprio lei sarà l’unica a pagare un prezzo altissimo per questo sua ‘immorale’ sincerità.

Cento minuti di impeccabile lavoro di squadra, fra slapstick, slow mow, gag e numerose citazioni metateatrali e non solo, con un ritmo e una qualità altissimi: speriamo di non dover attendere altri due anni per tornare a vedere Il Mulino di Amleto a Ferrara con uno dei loro lavori.

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