Recensioni
28 Dicembre 2017
I capolavori berniniani in esposizione fino al 4 febbraio a Roma

Bernini in mostra alla Galleria Borghese

di Redazione | 5 min

di Maria Paola Forlani

Fino al 4 febbraio del prossimo anno la Galleria Borghese di Roma offre al pubblico la mostra «Bernini», curata da Andrea Bacchi , direttore della Fondazione Federico Zeri di Bologna e grande esperto di scultura barocca, e da Anna Colliva, direttrice della Galleria Borghese e anch’essa esperta e custode dei massimi capolavori berniani.

La mostra intende percorrere due linee d’indagine. Da un lato vuole spiegare come Bernini lavorò all’edificazione del proprio mito; dall’altro ripercorrere l’intera carriera del maestro – svoltasi sotto il regno di otto papi – partendo dagli strepitosi gruppi di Gian Lorenzo che la Villa da sempre possiede e riunendo attorno ad essi un insieme di 30 marmi, terrecotte, bronzi e, per la prima volta, tutti i dipinti che trovano il più vasto consenso critico sull’autografia berniniana.

L’intento è sottoporre, tanto al pubblico quanto agli studiosi, una serie di temi su cui la mostra aiuta a riflettere. Primo fra tutti il rapporto di alunnato prima e collaboratore poi, di Gian Lorenzo con il padre Pietro, da molti anni assai discusso, viene qui riesaminato alla luce di un confronto inedito come quello fra lo spettacolare gruppo del Metropolitan, già in casa a Roma, opera congiunta di padre e figlio e il Satiro a Cavallo di una pantera di Berlino a loro volta affiancati per la prima volta insieme alle Quattro Stagioni Aldobrandini, che accolgono il visitatore nel salone d’ingresso della Galleria. La Capre Amaltea, per quasi un secolo universalmente ritenuta il primo numero del catalogo di Gian Lorenzo, è qui accostata ai due putti di Berlino e Los Angeles, in un confronto ancora una volta inedito nel suo insieme, che permette di ragionare nuovamente su autografia e datazione della Capra stessa. Riuniti nella Sala Egizia, questi tre marmi dialogano con il Satiro sul delfino antico, un ideale precedente ai putti seicenteschi.

In merito al rapporto di Bernini con il restauro dell’antico, si ha qui l’occasione per la prima volta di riflettere anche in relazione a quanto realizzato nello stesso campo dal padre, ammirando per la prima volta insieme tanto il Marco Curzio su cui intervenne Pietro, quanto l’Ares Ludovisi e l’Ermafrodito Borghese (che ritorna, eccezionalmente, prestato dal Louvre, nella sala in cui si trovava prima della vendita a Napoleone), integrati dal figlio. L’immagine corrente di Gian Lorenzo per il grande pubblico non è oggi, forse, legata alla sua attività di ritrattista, ma proprio in questa veste il grande scultore iniziò ad imporsi a Roma nella sua giovinezza, ed in questa mostra sono riuniti sette suoi busti ritratto scalati in appena cinque anni, tra il 1620 e il 1625 circa. Al centro del percorso espositivo sono, naturalmente, i celeberrimi

quattro gruppi borghesiani, che accompagnano il visitatore lungo tutto il pianterreno della Galleria, nelle loro rispettive sale: per l’occasione il capolavoro di Federico Barrocci Enea, Anchise e Ascanio fuggono da Troia è esposto dietro al marmo di Gian Lorenzo raffigurante il medesimo episodio, secondo quello che era il loro allestimento al tempo di Scipione Borghese.

L’annoso problema del Bernini pittore, su cui la critica oscilla tra cataloghi molto restrittivi ed altri più espasionisti, è in questa mostra riaffrontato dai curatori organicamente ripartendo dai punti assolutamente fermi, ma anche con alcune proposte da riesaminare, ed altre del tutto inedite. Sempre nella Galleria al primo piano, accanto ai dipinti, e in dialogo diretto con quelli giovanili, si ammirano i tre busti ai quali è fondamentalmente legata la formula ritrattistica del “ritratto parlante”, geniale invenzione del Gian Lorenzo maturo.

Come quella dei gruppi borghesiani al pianterreno, anche la sezione che indaga il mestiere dello scultore si dispiega lungo più sale del primo piano, anticipata dalla Verità che per l’occasione è stata ricollocata nel salone d’ingresso, sotto l’affresco settecentesco di Mariano Rossi nel quale il pittore aveva citato proprio quella statua quando ancora si trovava a Casa Bernini in via della Mercede.

La sequenza cronologica delle opere in mostra si chiude con la sezione dedicata ai busti della piena maturità e della vecchiaia del maestro, con altri sette capolavori, divisi tra la Galleria e la sala dedicata alla pittura veneta.

Molte sono le novità che questa mostra presenta al pubblico. Da quando nel 2002 il Busto del Salvatore di San Sebastiano fuori le mura è entrato nella bibliografia berniniana, l’autografia dell’esemplare del Chrysler Museum di Norfolk è stata messa in discussione da gran parte della critica (con autorevoli eccezioni, a partire da quella di Tommaso Montanari), ma mai fino ad oggi i due pezzi erano stati esposti insieme. D’altra parte questa è l’occasione per ammirare uno accanto all’altro i due soli Crocifissi monumentali di Gian Lorenzo, entrambi in bronzo, ed entrambi fuori dall’Italia (Escorial e Toronto).

Così la Santa Bibiana, appena restaurata, accoglie i visitatori nel salone d’ingresso, collocata nel vano che dà accesso alla Galleria del pianterreno, in modo tale da poterla ammirare a trecentosessanta gradi. Si apre così la meraviglia di Apollo e Dafne dove la fuga disperata della ninfa e l’inseguimento di Apollo che quasi la sta afferrando si stempera in un elegante atteggiamento ballettistico. Dafne si dibatte, grida, Apollo chiude la bocca nell’ansito della corsa; ma il dramma, la violenza, scompaiono nell’armonico disporsi delle due figure secondo una linea obliqua che, partendo dalla gamba sinistra del dio, ancora sollevata, culmina nella mano destra della ninfa già trasformata in fronda. Atteggiamento, appunto, ballettistico, grazie all’equilibrato e calcolato rapporto fra l’uno e l’altra, come seguendo un ritmo musicale preordinato al quale ogni movimento coreografico è sottoposto.

Coerentemente con questa eleganza, il trattamento del marmo è raffinato fino quasi alla trasparenza, la luce e l’ombra lo accarezzano dolcemente, modulandolo senza scarti bruschi, senza contrasti.

Per dare un significato morale (consono alla sua carica) a un gruppo marmoreo di tema pagano ed erotico, il committente, cardinale Scipione Borghese, dettò il seguente distico latino: Quisquis amans sequitur gaudia formae / fronde manus implet, baccas seu carpit amaras (ogni amante che insegua i piaceri della bellezza fuggente / afferra con le mani la fronda, o meglio gusta bacche amare).

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