Attualità
8 Luglio 2017
Le testimonianze di Sabrina Pignedoli, Giacomo Di Girolamo e Mara Fonti

Giornalisti colpiti dalla mafia agli Emergency Days

di Redazione | 7 min

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di Federica Pezzoli

Come si fa a fare il giornalista e a scrivere di mafia in Italia? Venerdì scorso è stato il tema del secondo incontro degli Emergency Days, al Chiostro di San Paolo fino a lunedì 10 luglio. Con le testimonianze di chi per questa domanda ha pagato e sta pagando, quotidianamente, un prezzo molto alto.

Sabrina Pignedoli è giornalista professionista ed è stata redattrice nella redazione di Reggio Emilia del Resto del Carlino, da maggio dello scorso anno lavoro al Qn, nella redazione di Roma: qui recentemente sono arrivate tre lettere anonime, solo le ultime in ordine di tempo, dopo le minacce per il suo volume “Operazione Aemilia. Come una cosca di ’Ndrangheta si è insediata al Nord” (Imprimatur, 2016), con il quale ha vinto la 52esima edizione del Premio Estense.

Giacomo Di Girolamo, scrive da quando aveva quattordici anni e dalla piccola radio di Marsala, Rmc 101, sfida il boss Matteo Messina Denaro – del quale ha scritto la biografia, sicuramente non autorizzata – denunciando gli affari di Cosa Nostra, collabora con Il Mattino di Sicilia, la Repubblica e Il Sole 24 Ore. Mara Fonti, insegnante, che questo prezzo lo ha pagato due volte, prima come moglie e poi come madre: il marito è stato ucciso in Calabria nel 1989, dopo che avevano incendiato l’azienda del padre, suo figlio aveva sette anni e ora è lui, Giovanni Tizian, a vivere sotto scorta per le minacce ricevute a causa delle sue inchieste sulla ‘ndrangheta in Emilia sulla Gazzetta di Modena prima e poi su L’Espresso.

“Cerchiamo di vivere normalmente, perché se ci facessimo vincere dalle minacce e dalla paura, allora è come se avessero vinto loro” afferma Mara e aggiunge: “quando hanno assassinato Peppe Giovanni aveva sette anni e non riuscivamo a trovare la forza di riprenderci, per questo siamo venuti in Emilia, siamo scappati, tanti altri restano, ma per noi questo era l’unico modo per portare avanti la nostra vita. Poi Giovanni ha passato lunghi anni di silenzio, fino alla notte di Natale del 2001, quando ha fatto pace con questa storia”.

E ne è iniziata un’altra: quella del suo incontro con la ‘ndrangheta in Emilia, “scoprirla malata della stessa malattia che avevamo lasciato in Calabria è stato un trauma”. Giovanni e Mara però hanno deciso di tentare di vivere come prima rifiutando le due strade che avevano di fronte, “cedere alla paura o diventare animali da palcoscenico”: il giornalista sotto scorta da esibire come simbolo dell’antimafia.

Quell’antimafia contro cui Giacomo Di Girolamo ha scritto un libro, edito da Saggiatore: una lettera provocatoria di resa a Matteo Messina Denaro. E quando Marco Zavagli, direttore di Estense.com e moderatore dell’incontro, lo paragona a un piccolo Peppino Impastato, lui ricorda che “Impastato aveva il coraggio di tre leoni” e non ha paragoni per quello che ha rischiato e pagato. Ora il compito è “abolire la parola antimafia, perché è la definizione solo di ciò che non vogliamo essere, è più bello ma anche più difficile definirci per quello che vogliamo essere, per esempio cittadini responsabili che si informano”. E la verità è che “sta nascendo un business mostruoso e legale dalle parti dell’antimafia”, come dimostra per esempio il caso “dell’associazione antiracket di Marsala costituitasi parte civile al processo Aemilia che non ha mai aiutato nessun negoziante”.

Per quanto riguarda il giornalismo d’inchiesta, “ne ho parlato con il mio analista – scherza Giacomo – e la risposta alla domanda “perché lo fai?” a quanto pare è “Perché lo so fare”, o meglio “Perché non so fare altro”. E come scrive Levi nel suo “La chiave a stella”: non c’è cosa che renda più felici che fare bene il mestiere che si ama fare”. Eppure, “ci sono momenti che senti che il tuo mestiere non serve e non servirà mai a nulla”.

Il problema di chi fa il giornalista d’inchiesta in Italia è “il silenzio attorno”, “la solitudine”. Senza trascurare il fatto, come scrive Di Girolamo nel suo libro, che c’è “un sistema che ti prende per fame”: le tariffe prevedono 2,60 euro per un flash, 6,40 euro per un articolo, il massimo per un articolo d’inchiesta è 20 euro, “Tu non hai più bisogno di ucciderli, i giornalisti, Matteo. Ci hanno presi per fame”.

Eppure Di Girolamo continua caparbiamente: “Come giornalisti dobbiamo abbandonare le narrazioni consolatorie, abbiamo di fronte una sfida difficile: raccontare la complessità del mondo nel quale stiamo. È come se fossimo pesci: non dobbiamo solo avvisare gli altri pesci che sta arrivando lo squalo, dobbiamo raccontare loro l’acqua nella quale nuotiamo”.

Anche Sabrina Pignedoli sottolinea che “fare questo lavoro deve essere prima di tutto una passione, per questo anche dopo le minacce non ho mai pensato di smettere di far bene il mio lavoro. Il problema è proprio questo: poter far bene il nostro lavoro, non tutti i giornali e i caporedattori ti danno la possibilità di dare alcune notizie. Al mio per esempio piacevano i furti nei garage, ma scrivere del sindaco che aveva comprato casa da un imputato del processo Aemilia era dare una notizia scomoda. Alcune cose sul processo le avrei volute scrivere prima, perché le sapevo, ma non ho potuto”. “Il problema però – continua Sabrina – non è solo il mio caporedattore”, ma il fatto di “essere una voce fuori dal coro”: scrivere che fare un convegno antimafia non è abbastanza se poi il Comune non fa rispettare i protocolli di legalità nelle gare d’appalto.

Le coincidenze della non assegnazione di un premio da parte di Assostampa a Giovanni Tizian e della reazione piuttosto fredda dei colleghi della Pignedoli alla vincita del Premio Estense, citate dal direttore di Estense.com, assumono così un carattere piuttosto beffardo.

“Quello che dicono Sabrina e Giacomo è vero – conferma Mara – noi abbiamo vissuto per anni solo con il mio stipendio e alcune notizie di Giovanni non le volevano pubblicare, ma un frammento di speranza dobbiamo continuare ad averlo. È difficile fare il giornalista, è difficile fare l’insegnante, è difficile vivere secondo certi valori, ma bisogna continuare a farlo”.

Un isolamento, quello testimoniato da Sabrina e Giacomo, che Mara ha descritto come “una sensazione terrificante, quando stai cercando la verità”, ma che lei non ha riscontrato qui in Emilia, nonostante “Modena, come Reggio Emilia, risulta refrattaria a tutto ciò che mette in discussione un sistema”. Per lei è stato importante sentire soprattutto la vicinanza dei cittadini perché significa aver raggiunto “chi è come te” e soprattutto perché “le lotte si fanno insieme, non esiste un eroe solitario”.

Dall’isolamento alla condivisione dunque, per restringere e isolare sempre più quell’area grigia di “supporter” e “promoter” delle cosche, come li definisce Sabrina Pignedoli, che servono loro per fare affari al Nord: “spesso gli appartenenti alle cosche non sanno mettere in fila due parole di italiano”, servono loro professionisti per “aprire conti in Svizzera”. Senza contare che al Nord spesso “sono imprenditori locali che vanno a cercarli per ottimizzare i guadagni, per esempio attraverso lo smaltimento illegale dei rifiuti, o per il recupero crediti”, spiega Sabrina.

Una condivisione che serve anche per costruire un fronte comune della società civile – si sarebbe detto qualche anno fa – di contrasto ai diversi tentacoli di questa piovra chiamata mafia, tentacoli che arrivano anche a Ferrara, secondo quanto afferma Mara Fonti: “Pensando al senso del mio essere qui oggi, mi è tornata in mente la protesta dei migranti a Rosarno a seguito della quale Emergency ha istituito un ambulatorio mobile. La rivolta era contro le ‘ndrine dei Pesce”, la stessa famiglia “a Ferrara gestisce una grande parte dell’ortofrutta”.

Aggiornamento delle 11.15 del 9 luglio 2017:

In merito al dibattito di ieri, vorrei precisare che ho fatto riferimento al mio caporedattore in modo scherzoso e non offensivo per la sua preferenza per le notizie sui furti nei garage, ma sottolineo che mi ha fatto pubblicare pure le notizie sulla casa del sindaco.
Non mi riferivo affatto a lui, per quanto riguarda la mancata pubblicazione di alcuni articoli: parlavo in generale e in astratto riferendomi al fatto che, in alcuni casi, i giornalisti possono non vedersi pubblicati alcuni loro articoli ‘scomodi’ perché a volte si tende a preferire temi più popolari e leggeri. 
L’incomprensione è nata dal fatto che evidentemente mi sono spiegata male anche perché ero totalmente afona per un problema alla gola ed era difficile anche per chi mi stava di fianco capire quello che stavo dicendo.
Simona Pignedoli
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