Politica
21 Maggio 2016
L’ex presidente della Camera contro il leaderismo: “l’identità non è più riferita al partito, ma ci si riconosce in un capo”

Luciano Violante e i rischi della “politomachia informativa”

di Redazione | 3 min

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‘Pagine sul potere’ è l’appuntamento settimanale di riflessioni sulla democrazia che ha riempito da aprile la Sala della libreria Ibs+Libraccio; ed è tornato a richiamare studenti e professionisti anche questo pomeriggio, per il suo quarto incontro dedicato all’informazione, che ha visto protagonista il penalista Luciano Violante e la sua opera ‘Politica e menzogna’ (Einaudi).

Un’analisi ampia, quella compiuta a partire dalle domande dei relatori Andrea Pugiotto e Giuditta Brunelli (costituzionalisti UniFe), a ragionare di un quadro politico mutato e mutante, spesso malfermo nella dialettica tra verità e menzogna: una “politomachia informativa”, come la definisce l’ex presidente della Camera, che si snoda e anzi poggia su nuovi mezzi e vecchie debolezze.

“Se è vero – espone – che la fragilità intrinseca della democrazia è la sua tensione alla verità, dobbiamo però constatare che oggi chiedere la verità è un atto sentito come eccessivo, radicale: e qui voglio fare un appunto, e dico una sola cosa di Marco Pannella, cioè che è stato un uomo che ha detto la verità”. Al ricordo affettuoso che Andrea Pugiotto aveva tracciato del Radicale ad inizio incontro si accoda dunque anche quello di Violante, che poi prosegue: “Oggi però assistiamo ad un superamento della domanda di verità, oggi si cerca piuttosto il consenso, e qualora invece si attivi il pensiero critico, questo viene travolto da una slavina informativa”. Un flusso incessante di informazioni che finisce per portare a valore l’istantaneità e rende indifferenti al falso: così non è affatto peregrino il distinguere “comunicazione da informazione, la prima crea stati d’animo, la seconda cerca l’oggettivo”.

La menzogna è però motore della Storia e la politica non ne è immune: si lega, nello specifico, all’esigenza tutta populista di consegnare al proprio auditorio esattamente ciò che si vuol sentire dire. È lo strumento “prediletto della demagogia, ed è segno di un abbandono dell’azione pedagogica che dovrebbe invece esser cardine della politica alla quale, invece dei valori in gioco, pare interessare oggi solo il vincere”.

“Si preferisce inseguire la società, rinunciando a dirigerla”, spiega Violante, e affonda la lente indagatrice nelle trasformazioni politiche del Paese: “la crisi della conformazione a blocchi verticali dei partiti iniziata negli anni 90 – continua – ha portato ad una cesura orizzontale tra politica e società, cosa che comporta un problema non solo di rappresentanti, ma di rappresentati”. I partiti oggi, difatti, si costruiscono in parlamento, lontano dalla società, e questa “statalizzazione mette in crisi il concetto di comunità, a favore di una caporalizzazione: l’identità non è più riferita al partito, ma ci si riconosce in un capo”.

Ne consegue un primitivismo che lascia spazio ad una “società giudiziaria – illustra – tutta impegnata ad incasellare ogni cosa nello schema barbaro di ‘denuncia sì, denuncia no, pena sì, pena no’: badate, è gravissimo quando politica, diritto e morale si mescolano”. E in un contesto nuovo in cui la democrazia “non si regge più tanto sui corpi intermedi ma sui cittadini”, è proprio la figura del cittadino a venire meno. La ricetta, però, c’è ed è “un processo di civilizzazione – continua – e ricostruzione della comunità a partire, perché no, dalla discussione circa il referendum costituzionale”.

Il compito non è dei più facili, immersi come siamo nell’età del verosimile: ecco che al cittadino “spetta il dovere di farsi proattivo”, di impossessarsi “della capacità critica di distinzione con il quale combattere l’indifferenza tutta postmoderna per la realtà”. Questo lo strumento di navigazione, anche nel mare del web: “uno strumento enorme – conclude – ma che pone il problema della scelta: non dobbiamo solo accedere alla notizia, dobbiamo andare oltre la sua spettacolarizzazione”.

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