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22 Novembre 2015

Vicino è solo il Dentro

di Francesca Boari | 3 min

Pubblichiamo, in vista del 25 Novembre, il terzo capitolo del romanzo inedito “Un dentro tanto grande” di Francesca Boari. Il capitolo tratta del tema della violenza sulle donne, già affrontato dalla scrittrice con il recente libro “Piovono sassi dal cielo”.

 

“Vicino è solo il Dentro, tutto l’altro è lontano.

E questo Dentro è denso e quotidiano

folto di cose e del tutto indicibile.

L’isola è come stella troppo piccola; di lei

lo spazio non si accorge e la cancella,

muto, tremendo nella sua incoscienza,

così che illuminata o udita,

sola,

perché tutto abbia finalmente un termine,

oscura per un orbita che da se stessa inventa

s’avventura alla cieca, estranea al corso

delle stelle erranti, dei soli e dei sistemi”.

(Rainer Maria Rilke, L’isola III, da Nuove poesie)

Sono stanca, sono distesa sul letto. E’ sera. Un grande silenzio intorno e dentro. Come gridare questo vuoto, oppure come dargli solamente un nome? Non ho forze. Ho fame. Tutte le energie del giorno e della notte sono rinchiuse in questa battaglia assurda contro un nemico che si dilata in tutto ciò che odora di vita. Immagino odori e li lascio appoggiati per qualche istante alla mia pelle. Mi alimento di immagini di cibo. Mi alzo. Tra poco rientrano. La cena dovrà essere perfetta e puntuale. Per loro. Ore 20.00. Tavola apparecchiata. Ordine. Fatica e vomito. Altaleno in questa vita che calpesto di ora in ora, come non bastasse mai il male. Verdura. Taglio e annuso. Ho perso anche l’olfatto, ho perso quasi la vista. Mi resta il tatto. Il gusto mi terrorizza. L’udito solo è smarrito. Tocco i pomodori rossi e maturi. Li avvicino alla pelle secca delle braccia sottili e trasparenti. Li strofino e succhio dalle ossa. Non sento niente. Suona il campanello. Ho il vomito. Entrano. I loro corpi hanno il peso della vita. E’ tutto sbagliato. Tutto in disordine. I tovaglioli non sono al loro posto. Lui urla. Mi siedo a terra , in un angolo. Lui si avvicina, mi picchia. Non reagisco. Non sento male. Vorrei che mi colpisse più forte. E’ sempre più rabbioso.

“La tua è una vita inutile. Sei malata. Ti sei specchiata? Sei orribile. Vorrei non averti mai incontrata”.

Di nuovo silenzio. Mi alzo. Ricompongo la tavola. Loro si siedono. Io vado in bagno. Sono davanti allo specchio. Scendono lacrime sul viso macchiato di semi di pomodoro. Sono brutta, sciupata, ammalata. Giorgio ha ragione. Mi infilo due dita in gola e spingo come dovessero accavallarsi allo stomaco e rovesciarlo, distruggerlo, annientarlo. Vomito. Non mi esce che un liquido giallastro. Mi guardo allo specchio. Sotto gli occhi due buchi viola mi sprofondano in un niente travestito da senso. Corse inutili verso assenze in sembianze di percorsi verso un luogo senza nome.

Esco dal bagno e sento Giorgio ridere e scherzare con le bambine. Non mi faccio vedere. Non sto in piedi. Mi stendo sul letto e chiudo gli occhi sfinita. Una immagine fuori da questo tempo. La cornice davanti a questi occhi chiusi. Noi due abbracciati a Parigi. La Tour Effeil sopra di noi come una divinità moderna che ci illude di una tutto.una vita insieme illuminata dalle emozioni del cuore. Quella sera, a Parigi, ho pianto di gioia. Poi di nuovo il controllo si è impossessato della mia esistenza.

 

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