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19 Maggio 2015
Alla Biennale di Venezia assegnato il premio alla statunitense protagonista della corrente concettuale

Adrian Piper vincitrice del Leone d’oro

di Redazione | 4 min

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L’assegnazione dei Premi alla Biennale di Venezia diventano un momento d’oro per discutere e di percepire le varie valenze nella nostra epoca. Fra le circa centoventi biennali al mondo, Venezia è la prima e sola a essere un concorso ciclico con un meccanismo a premi.

Vincitrice di questa 56/ma edizione dell’Esposizione Internazionale, dal titolo “All The World’s Futures”, a cura del nigeriano Okwui Enwezor (1963), è Adrian Piper (New York 1948), protagonista della corrente concettuale e della performance, abile nell’intrecciare la pratica artistica con la ricerca in ambito accademico. Piper è una filosofa analitica che ha insegnato a Georgetown, ad Harvard e a Stranford, oggi al Wellesley College Massachusetts, professore emerito dell’American Philosophical Association e in assoluto prima accademica afroamericana in filosofia. Ama definirsi “di razza mista, come tutti gli americani”: è per 1/32 malgascia (del Magadascar), 1/16 nigeriana e per 1/8 dell’India dell’est (Delhi), oltre ad avere avi britannici e tedeschi. Alla fine degli anni sessanta, l’arte di Adrian Piper era classicamente concettuale. Agli esordi, sotto forma di pagine dattiloscritte, istruzioni e schemi, la sua opera rifletteva una conoscenza approfondita della linguistica e delle teorie semiotiche. Le concomitanti indagini sulla natura della consapevolezza sono state attentamente favorite anche da una metodica pratica di yoga e meditazione, che l’artista mantiene ancora oggi. Tuttavia, come risposta alle ripetute esperienze di razzismo e sessismo nel mondo maschilista dell’arte newyorchese degli anni sessanta, la pratica artistica di Piper è cambiata in funzione di un crescente impegno politico e il suo lavoro ha incarnato le strategie concettuali verso nuovi interrogativi su razza, genere e sessualità.

Piper studia di Kant e soprattutto di metaetica (Rationality and the Structure of the Self, I: The Humean Conception; Rationality and the Structure of the Self, II: A Kantian Coneption, Cambrige University Press, 2008), ha riflettuto sulle sfaccetature dell’identità attraverso gli sguardi e le azioni dell’altro. E sull’inestricabile sintesi, riguardo i problemi razziali, fra il colore della pelle e i tratti fisionomici, da un lato (natura), gli usi, i costumi (cultura) e la discriminazione dell’altro.

Nel 1973 Piper realizza Mythic Being, prima analisi dei processi di costruzione delle differenze razziali e di genere: appartiene a questa serie di lavori – alla cui base sta una complessa e progressiva spoliazione delle caratteristiche soggettive – una performance in cui l’artista recita un mantra tratto da una frase dei propri diari, mentre gira per le strade vestita da young black con pantaloni, occhiali scuri, parrucca afro e baffi, secondo gli stereotipi usuali. Confronto, alinazione, accettazione e differenza sono motivi esaminati sia come fenomeni sociali, che meccanismi interni alla stessa persona. Due anni più tardi, Piper ha creato un suo alter ego maschile chiamato “Mythic Being”; si è esibita en travesti in tutta New York creando una serie di fotografie a collage e sovradipinte, abbinate a testi – riflessioni, slogan politici e civetterie – che hanno affrontato la performance di genere e gli stereotipi sulla sessualità nera.

Abituata a pensare che il personale è anche politico, nel 1981 Piper – mediando la percezione di sé con quella restituita dagli altri – disegna degli autoritratti in cui esagera visibilmente gli elementi fisionomici che appartengono allo stereotipo della razza nera, mentre in un’azione reiterata fra il 1986 e il ’90 – My Calling (Cards) –

distribuisce dei biglietti da visita con osservazioni esplicite sul razzismo – mettendoli a disposizione anche ad altre possibili vittime. Suscitare reazioni nel pubblico è l’effetto di molti dei suoi lavori: in Comerend – installazione del 1988 – Piper sfrutta la chiarezza della propria pelle per presentarsi su uno schermo mentre afferma di “essere nera”, un’asserzione contestata dall’apparenza, ma messa in dubbio anche dall’esposizione di due certificati di nascita del padre dell’artista, in cui afferma, in uno, la sua appartenenza alla razza bianca, nell’altro, a quella nera, il tema dell’appartenenza alla razza e la percezione dell’altro sono obiettivi prioritari.

Gli aspetti performativi e dialogici dell’arte odierna, valorizzati dalla giuria con questo premio, emergono nel lavoro presentato alle Corderie dell’Arsenale, The Probabile Trust Registry: una performance interattiva che teatralizza le dinamiche dei contratti sociali o personali. In un ambiente aziendale simulato, i visitatori possono firmare dichiarazioni in cui promettono responsabilità morale verso se stessi e gli altri. I documenti vengono poi fotocopiati e archiviati presso l’Apra /Adrian Piper Research Archive) Fundation, con sede a Berlino. Per Piper, All the World’s Futures

è ogni futuro imminente, a partire dalle promesse negli atti di sottoscrizione.

A questa performance si correla una serie di foto abrase e modificate (Everything Wil Be Taken Away Erasers). In ogni immagine è ripetuta, a stampatello, la frase del titolo, quasi come un promemoria. Piper espone inoltre quattro lavagne vintage, su cui vengono ripetute le stesse parole come fossero frasi di punizione in aula. Questa serie solleva diverse questioni, che vanno dalla sfera politica a quella spirituale, tra cui, ad esempio, la distruttività del conflitto globale contemporaneo, la censura nei media dominanti o l’ideale del non-attaccamento secondo lo yoga. Mentre le lavagne pregne di cancellature suscitano angoscia.

Tutto è destinato alla cancellazione e il primo segno, del resto, è una cancellazione (Italo Calvino). Sopravvive l’atto di tracciare, nella fugacità del suo divenire.

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