Cronaca
9 Gennaio 2014
Beneventi, senza imbragatura, sarebbe sceso dalla scala trasportando materiale. Linguerri: "Operai mandati allo sbaraglio"

Morte nel cantiere, dai testimoni le dinamiche dell’incidente

di Ruggero Veronese | 4 min

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Un cantiere in cui non erano state stabilite regole per la sicurezza, al punto da lasciare ogni precauzione soltanto al “buon senso” dei lavoratori. È questa l’immagine che emerge dall’ultima udienza, in cui sono stati ascoltati i testimoni della pubblica accusa e della parte civile, nel corso del processo sulla morte di Anacleto Beneventi, il 36enne elettricista comacchiese che il 3 aprile del 2008 perse la vita mentre lavorava alla costruzione di una nave sulle coste indiane. A fronteggiare il pm Ciro Alberto Savino e l’avvocato Marco Linguerri, per conto dei famigliari di Beneventi, sono presenti i difensori dei tre rappresentanti legali delle aziende che presero parte al cantiere, tutti imputati con l’accusa di omicidio colposo e di violazione delle norme di sicurezza sul lavoro. Si tratta del datore di lavoro di Beneventi, Gabriele Orioli della ditta Bs Impianti, il presidente del cda della Coe Clerici di Milano, Paolo Clerici, e il sub appaltatore Guglielmo Bedeschi della Bedeschi spa.

I testimoni che sfilano in aula ripercorrono la storia del cantiere navale fino al momento del tragico incidente di Beneventi, che all’epoca dei fatti si trovava a circa due chilometri al largo di Mumbay, dove erano in dirittura d’arrivo i lavori per la costruzione di una nave cargo cominciati in Cina qualche mese prima. La società responsabile dell’opera è la Coe Clerici di Milano, che ha appaltato parte dei lavori alla ditta Badeschi la quale, a sua volta, ha contattato la ditta Bs Impianti di Ravenna per la realizzazione della rete elettrica. Ed è proprio per la Bs che l’elettricista comacchiese parte per la trasferta asiatica assieme ad altri due dipendenti, per poi prendere contatto sul posto con i rappresentanti delle altre società.

La nave è ormai strutturalmente completa, ma ancora da rifinire negli interni e negli impianti. Il giorno dell’incidente Beneventi sta scendendo da una scala a pioli che collega il ponte della nave alla cabina di controllo della gru, quando perde la presa e cade nel vuoto per almeno 15 metri. L’impatto con il ponte della nave, sulla quale non è presente personale medico, non lascia scampo al 36 enne comacchiese: dalla terraferma parte una barca per trasportare a terra il ferito, le cui condizioni sono però già disperate. Beneventi morirà prima dell’arrivo dei soccorsi.

Durante l’ultima udienza il racconto più rilevante è quello di un ingegnere della Coi Clerici, che pur non avendo visto direttamente la caduta era la persona che si trovava più vicina al luogo dell’incidente. L’uomo si trovava infatti a pochi metri, in una cabina interna, quando ha sentito un frastuono di oggetti metallici cadere sul ponte della nave, seguito dopo pochi istanti da un pesante tonfo. Una volta uscito ha visto il corpo di Beneventi e, attorno a questo, alcuni attrezzi e cavi di metallo. Un dettaglio che potrebbe spiegare la dinamica della caduta: non è da escludere infatti, come lo stesso ingegnere ha ipotizzato, che l’elettricista reggesse il carico con una mano mentre scendeva dalla scala verticale aggrappandosi con l’altra. Una scala, tra l’altro, sprovvista di protezione marinara, la gabbia di sicurezza a semicerchio che in questi casi può salvare la vita.

Cominciano a questo punto le domande di Savino e Linguerri sulle misure di sicurezza nella nave: non era obbligatorio assicurarsi con una cintura di sicurezza? Non erano state impartite istruzioni specifiche, o condotti corsi sulla sicurezza nei cantieri navali? Che tipo di protezioni fornivano le ditte impegnate nell’opera? Tutte domande che trovano risposta negativa da parte dei testimoni. Dal racconto di un collega di Beneventi è emerso anche che l’imbragatura di sicurezza fornita sul posto era provvista di un singolo moschettone, e quindi non adatta a salvare da una caduta dall’alto ma semplicemente a mantenere gli operai in un’area di sicurezza durante il lavoro. “Il tipo di cinture che servono per proteggere dalle cadute – ha affermato in aula l’operaio – sono diversi, ma io l’ho appreso soltanto dopo”. L’utilizzo della cinghia non era neppure obbligatorio e il testimone ha raccontato che solitamente non veniva utilizzata negli spostamenti. Nessuno dei testimoni ha potuto neanche confermare che l’elettricista indossasse il casco al momento dell’impatto, pur essendo, dai racconti dei colleghi, un lavoratore prudente e professionale.

Tutti dettagli che, sommandosi l’uno con l’altro, fanno sorgere le ipotesi dell’accusa e della parte civile. “Questi operai erano stati mandati allo sbaraglio – afferma Linguerri a udienza conclusa -: nessuno aveva dato loro indicazioni o detto come comportarsi. Decidevano autonomamente e nella disorganizzazione più totale, ognuno affidato al proprio buon senso. È questo il motivo principale dell’incidente”. Nella prossima udienza, prevista per il 22 gennaio, verranno ascoltati i testimoni delle difese.

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