di Nicolò Govoni
Nella quarta serata degli Emergency Days, al centro sociale Il Parco, il coordinatore infermieristico di Emergency Italia Sauro Forni ha raccontato la sua esperienza a bordo della nave Life Support, tra operazioni di salvataggio e testimonianze toccanti di chi dal mare è stato salvato.
“Una scelta di cui non si è mai pentito”, introduce la moderatrice e giornalista Giorgia Pizzirani. “Ho fatto la mia prima missione nel 2008: è stato difficile tornare alla routine quotidiana. E dal 2011 ho lavorato solo per Emergency, ricoprendo vari luoghi e tutte le attività”.
“Ogni Stato ha le sue zone di competenza nel soccorso di barche in difficoltà”, prosegue Forni, “ma Paesi come Malta, ad esempio, non hanno mezzi di ricerca e soccorso, al contrario della Guardia Costiera, composta da persone straordinarie con il nostro stesso sentimento, ma spesso con le ali tappate. Quindi ci sono le Ong: navi e arei agiscono coordinati, ma la difficoltà è che siamo pochi in un mare immenso, e spesso ci assegnano porti di sbarco molto lontani. Inoltre, quello che vediamo e conosciamo in mare è solo la punta dell’iceberg”.
Salvare vite è un obbligo morale prima che giuridico, ma come si spiega la discrasia tra legge e operatività? “Se avessi una risposta avrei sarei al Parlamento Europeo”, ironizza Forni. “Non ne faccio una questione di colore politico: la strada è ancora lunghissima. Noi dobbiamo fare, con le nostre risorse, grazie al cuore pulsante dei volontari, e investire in progetti che possano dare qualcosa”.
Poi, il racconto di una giornata tipo sulla Life Support: “Io sono un infermiere, ma si fa un po’ di tutto sulla nave. Quando arriviamo nella zona d’operazione, ci si prepara con addestramento e simulazioni ripetitivi, si fanno i turni di osservazione e si controlla che le attrezzature siano a posto. All’avvistamento si fa un meeting immediato, ed è il momento del riposo: non si sa quanto durerà l’operazione. Si calano quindi i gommoni, e in quello più grande c’è la fondamentale presenza del mediatore culturale: i migranti non sanno chi siamo, e avvisiamo che non siamo libici e che vogliamo salvarli. Questa è la fase più delicata; poi si procede con il trasbordo”. Quando le persone sono finalmente sulla nave, “si passa al triage medico e alla perquisizione; inizia così la fase di hospitality: molti si addormentano, per il crollo di adrenalina, e il giorno successivo ci dedichiamo alle attività ambulatoriali”.
Il momento più solenne è la comunicazione del porto di sbarco: “È un compito che spetta al comandante. C’è felicità, ma poi subentra la preoccupazione, perché le persone salvate non sanno cosa fare una volta a terra. Noi spieghiamo loro le leggi italiane: e alla fine sbarcano, ed è il momento più forte, dopo aver passato tanto tempo insieme, raccontandoci le loro storie”. Testimonianze drammatiche, toccanti ma anche di speranza, che inframezzano la serata, lette dalla voce del volontario Simone Grillo.
“Le regole ci impongono di non rimanere in contatto dopo lo sbarco”, aggiunge Forni, “e io lo trovo corretto: bisogna essere professionali anche in atti di umanità. Seguiamo alcune persone, ma solo dal punto di vista istituzionale, come organizzazione”.
Infine, due episodi che hanno lasciato grande gioia. “Era la stagione delle piogge nel campo profughi di Mayo, a Khartoum. Non sapevamo come uscire per via del tempo atmosferico: fu in questa attesa che salvammo la vita a una bambina con una perforazione da tifo, portandola sulla nostra ambulanza. Altri mezzi non sarebbero riusciti a entrare nel campo”.
Poi, un’altra storia a lieto fine: “Vivevamo sulle rive del Nilo Azzurro, e lì vicino vi era una fabbrica di mattoni. Dalla fornace, una sera, sentimmo urla di dolore. Era un ragazzo, che aveva la mano schiacciata sotto un bancale di pietre. Lo liberammo, ma dovettero amputargli la mano. Tre settimane dopo mi chiamarono dall’ospedale: questo ragazzo era disperato, perché da solo provvedeva al reddito familiare. Così lo assumemmo per fare le pulizie, con una scopa appositamente costruita, nel Salam Centre di Khartoum”.
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