Eventi e cultura
21 Gennaio 2016
Il ricordo del grande regista scomparso nelle parole di Giuseppe Gandini

La lezione del maestro Ettore Scola

di Marco Zavagli | 3 min

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Giuseppe Gandini (il secondo da sinistra) in una scena de "La cena"

Giuseppe Gandini (il secondo da sinistra) in una scena de “La cena”

“Sul set era tranquillo, tranquillissimo, come solo i grandi maestri sanno essere”. Lo ricorda così, seduto sulla sua sedia di regista a dettare tempi e ritmi ai mostri sacri del cinema italiano. È l’immagine di Ettore Scola nella memoria di Giuseppe Gandini.

L’attore ferrarese, che martedì 2 febbraio porterà il suo spettacolo “Guccio” al Teatro Vascello di Roma (“e magari presto anche a Ferrara”) ha collaborato due volte con il maestro scomparso martedì a 84 anni.

La prima come assistente volontario alla regia. Era il 1994 e si stava girando “Il romanzo di un giovane povero” con Alberto Sordi. La seconda ne “La cena”, del ’98. Mi chiamò per il provino perché gli tornai in mente grazie a un cortometraggio che feci a Pisa e che lui vide a Sorrento l’anno prima. E così mi trovai catapultato all’interno di un cast stellare, con Vittorio Gassman, Giancarlo Giannini, Stefania Sandrelli, Eros Pagni, Riccardo Garrone, Fanny Ardant e Daniela Poggi. Il mio personaggio era quello di un soldato, seduto al tavolo assieme ad altri tre spasimanti a contendersi il cuore di Nadia Carlomagno, nei panni di una femme fatale siciliana. Io avevo un gran timore reverenziale, che si assopiva un po’ durante le pause quando le battute ‘fuori onda’ di Gassman a Garrone mi facevano morire dal ridere.

E Scola?

Durante le pause lui pensava già all’inquadratura successiva. O si fermava per salutare Monicelli o Ether Parisi di passaggio per Cinecittà.

Cosa ti è rimasto di quell’esperienza?

C’era unità di tempo e di spazio; tutti gli attori erano convocati tutti i giorni, si lavorava per sette, otto settimane consecutive. Si creava un rapporto particolare con gli altri attori. Per carità, esistevano delle gerarchie, chiare e spontanee dall’inizio, ma questo non inficiava i bellissimi rapporti che si creavano tra attori e tra attori e regia.

In mezzo c’è anche un simpatico aneddotto.

Sì, la premiazione che mi vide nominato prima di Gassaman e Giannini! “La cena” conquistò nel ’99 il Nastro d’Argento per l’intero cast maschile. Me compreso. E così il giorno del conferimento a Roma mi ritrovai a ricevere il premio in ordine alfabetico: Gandini, Gassman, Giannini…

Cosa devi a Scola?

Mi ha fatto vedere cosa è stato il cinema di serie A, il grande cinema italiano. Non parlo di una qualità perduta o irripetibile, perché oggi anche le esperienze di Sorrentino o di alcune serie televisive come Gomorra raggiungono livelli eccellenti, ma era un modo di fare cinema diverso. Diverso nei tempi, nelle atmosfere.

Diverso anche nei maestri forse.

Certo. Con Scola scompare una generazione che ha fatto scuola in tutto il mondo, da Fellini a Monicelli, a Antonioni. Con lui tramonta quel tipo di cinema, ma almeno ci ha lasciato delle lezioni indimenticabili. Con certi registi poi ti accorgi solo dopo di come, più che spiegarti qualcosa, ti trasformano un poco in qualcosa. Scola ti rendeva tutto naturale, dall’alto della sua voce sempre pacata, della sua sorprendente tranquillità. Era un capobranco che sapeva dove condurre il gregge. Rispetto ad altri registi con cui ho lavorato, che vedevano negli attori un ostacolo al raggiungimento di uno scopo, Scola amava gli attori. Erano per lui come i colori per un pittore che compone la propria tavolozza.

Negli ultimi anni l’hai più rivisto?

L’ho incontrato un paio di volte per strada. Era sempre disponibile e cordiale. L’ultima volta mi ha chiesto a cosa stessi lavorando. Gli risposi che stavo preparando uno spettacolo per bambini di cinque anni. E lui, serio,: «ah però, un pubblico molto difficile!».

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