Attualità
12 Novembre 2017
La storia di Monica, invalida al 50%, senza assegno Inps, con cure da pagare e una figlia da mantenere

Malata ma non abbastanza. Non può lavorare ma nemmeno avere la pensione

di Marco Zavagli | 5 min

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“Una mattina di novembre del 2015, mi alzo dal letto con il braccio destro tumefatto, violaceo, gonfio e molto dolorante”. Inizia così “l’odissea medica”, come la definisce lei stessa, di , barista ferrarese di 49 anni.

Monica da allora scoprirà – dopo vari e inutili tentativi di diagnosi da parte di vari medici – di essere malata. Malata ma non abbastanza, perché la percentuale di invalidità che le viene scritta nero su bianco è del 50%, “insufficiente per ottenere un assegno Inps”.

La sua storia viene raccontata dai suoi datori di lavoro, i titolari del Bar Lex, in piazza Tasso a Ferrara. Sono loro a pubblicare sulla propria pagina facebook una lettera-sfogo di Monica (per “sensibilizzare chi avrebbe dovuto aiutarla prima, e chi potrebbe/dovrebbe farlo oggi”). Una lettera-sfogo in cui la dipendente elenca passo dopo passo gli ultimi due anni passati tra sale di ospedale, attese di referti e uffici amministrativi.

Già in quella mattina di novembre Monica capisce che il suo problema è “di proporzioni importanti, legate al mio lavoro, essendo io barista, totalmente destrimane”. In prima battuta decide di rivolgersi al suo fisioterapista di fiducia, “il quale mi consiglia di contattare il medico di famiglia rendendosi conto di non potermi aiutare perché trattasi, secondo il suo parere, di un problema vascolare evidenziabile attraverso un eco-doppler arterioso/venoso”.

Il medico le consiglia però un’elettromiografia agli arti superiori, “non essendoci, a suo avviso, problemi di circolazione arteriosa del polso”.

Monica attende gli appuntamenti per visite mediche ed esami diagnostici “con tempi di attesa lunghissimi, per usare un eufemismo”. Nel frattempo il braccio non migliora, “ed io continuo, ligia al mio dovere, a presentarmi nei vari luoghi di lavoro che ho dovuto procacciarmi per riuscire a portare a casa uno pseudo stipendio di circa 800/900 euro al mese”.
Il dolore acuto la spinge un giorno al pronto soccorso dell’Ospedale del Delta, “dove mi diagnosticano il cosiddetto “gomito del tennista”, mi consigliano di effettuare accertamenti sulle malattie reumatiche perché probabili colpevoli del mio problema…”. E così, dopo qualche mese, la donna scopre di soffrire di sindrome fibromialgica, “malattia fantasma della quale adesso tanto se ne parla, ma per la quale nulla si fa, e che ritengono essere responsabile del mio braccio dolorante”.

Intanto il tempo scorre e il braccio non migliora, anzi, “peggiora, fino ad arrivare ad un tardo pomeriggio di un venerdì sera di febbraio di quest’anno, quando decido di presentarmi al pronto soccorso dell’Ospedale Sant’Anna a Cona, dove mi accettano con un codice giallo, benché in presenza di braccio totalmente cianotico con sbalzi di temperatura impressionanti”.

Dopo diverse ore di attesa tra esami e raggi al torace, le viene diagnosticata una sospetta trombosi venosa profonda all’arto superiore destro. “Il medico di turno, non potendo accertare o meno il proprio sospetto perché non presente personale medico della diagnostica vascolare in grado di farmi un eco-color-doppler, mi propone il ricovero in forma precauzionale, sostenendo che fino al lunedì successivo nessuno sarebbe stato in grado di eseguire questo esame”.

Ma lei deve lavorare. E allora rifiuta il ricovero e accetta la terapia domiciliare, “nell’ottica di ripresentarmi all’inizio della settimana successiva e terminare gli esami richiesti”. Viene quindi dimessa con un codice verde “che, ahimè, mi porta a pagare centinaia di euro per tutte le indagini di pronto soccorso effettuate in quella sede e in tutte quelle a seguire, essendomi ripresentata al triage più volte, nell’arco dei mesi successivi, con il braccio sempre dolorante e cianotico”.

Ma il bandolo della matassa è ancora lontano. “Mi trovo senza un medico referente che mi segua e il sospetto che si sposta su di un’altra patologia non così immediata nella diagnosi, ossia la Tos (Sindrome dello stretto toracico), che viene accertata tramite una serie di esami diagnostici, tra cui esami del sangue, elettromiografia e risonanza magnetica con liquido di contrasto”.

Le viene proposto di essere inserita in un percorso ambulatoriale complesso. Ma qui “si sbarra, per l’ennesima volta, la strada che mi porta ad una diagnosi certa: trascorrono tre mesi per avere i tre esami necessari, che ottengo solo dopo aver alzato la voce e manifestato il mio sconforto al medico referente, accusandolo di essersi, per così dire, dimenticato di me…”.
Arriva l’esito: “scopro di avere un difetto anatomico congenito che mi ha portato a nascere con una costola in più, la cosiddetta costa cervicale, che ha di conseguenza creato la compressione della vena succlavia, colpevole della trombosi”.

Monica è sottoposta a un intervento di scalenectomia e resezione della prima costa. E così “mi trovo, ad oggi, ad avere dei tempi di recupero di almeno un anno e mezzo, di non essere più in grado di svolgere le mie mansioni lavorative (non riesce a tenere con la destra nemmeno un foglio di carta, ndr) con conseguente perdita del lavoro e di avere, molto probabilmente, anche altri problemi a livello neurologico dovuti alla cronicità del danno subito”.

E, come detto, Monica non può contare nemmeno in un aiuto dell’Inps: “riconosciuta invalida al 50% (servirebbe il 67% di invalidità), potrò solo sperare di riuscire ad entrare nelle liste del collocamento mirato per potermi trovare un nuovo lavoro, ma capite anche voi che a 49 anni e una figlia da mantenere, trattasi di grande utopia”.

Non è tutto. “In tutto questo, continuo a sostenere tutte le spese mediche perché la mia patologia non rientra nei livelli essenziali assistenziali. O quantomeno nessuno sa rispondermi, in tutti gli uffici che ho contattato, se ho diritto o meno all’esenzione per la patologia sindrome da stretto toracico”.

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