Eventi e cultura
11 Settembre 2017
Alla Giornata della Cultura Ebraica si parla di 'emigrazione silenziosa' e antisemitismo

Diaspore di ieri e di oggi, dagli ebrei ai giovani

di Redazione | 6 min

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di Federica Pezzoli

Anche Ferrara è stata, domenica 10 settembre, fra le 81 città italiane che hanno ospitato gli eventi della Giornata Europea della Cultura Ebraica, la manifestazione che intende favorire la scoperta del patrimonio culturale ebraico attraverso visite a sinagoghe, musei e antichi quartieri ebraici, coordinata dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e giunta quest’anno alla sua diciottesima edizione.

Il file rouge scelto per il 2017 è stato “La Diaspora. Identità e dialogo”, tema di stringente attualità in questi tempi complessi di flussi migratori di massa e di difficile confronto con l’Altro.

A Ferrara la giornata è iniziata alle 10 con un convegno a Palazzo Roverella ed è poi proseguita nel pomeriggio con l’apertura dell’edificio delle sinagoghe in via Mazzini e visite alla vecchia zona di insediamento del ghetto in compagnia di componenti della comunità ebraica ferrarese.

“Ferrara non poteva non fare la propria parte – ci ha detto il sindaco Tiziano Tagliani a margine dell’incontro al quale ha partecipato fra il pubblico – ed è bello che l’iniziativa di stamane sia proprio qui nel palazzo che il circolo dei commercianti ha ereditato da Federico Zamorani, componente della comunità ebraica ferrarese”.

È stata la professoressa Marcella Hannà Ravenna, già docente Unife e componente della comunità ebraica di Ferrara, a fare gli onori di casa presentando i relatori del convegno: Luciano Caro e Andrea Pesaro, rabbino capo e presidente della comunità estense, e George Bensoussan, dal Mémorial de la Shoah Parigi, storico di fama internazionale, recentemente accusato – e poi assolto – di islamofobia per aver per aver citato in una trasmissione radiofonica un sociologo algerino, secondo cui “nelle famiglie arabe in Francia l’antisemitismo viene trasmesso con il latte”.

Assente per motivi famigliari il direttore del Meis, Simonetta della Seta, il cui intervento è stato letto dalla stessa Ravenna. Un intervento sul complesso e contraddittorio rapporto fra Israele ed ebraismo diasporico, fra ‘Yhiadut’ (essere ebrei) e ‘Israeliut’ (essere israeliani): “=ggi l’identità israeliana è basata su una narrativa nazionale distanziata dai valori della Diaspora. Israele – scrive Della Seta – è grato all’ebraismo diasporico per il sostegno e gli aiuti e riconosce il radicamento europeo del Sionismo”, ma “non ama l’ingerenza di ebrei non israeliani negli affari dello Stato”.

Una concezione della diaspora e della dispersione come condizione esistenziale a metà fra punizione e speranza è quella delineata da rav Caro attraverso le parole della Bibbia e dei profeti. “Nella Bibbia l’esilio è considerato come una delle punizioni più gravi che possano colpire l’uomo. Sta scritto: ‘L’Eterno ti disperderà’ e ‘Sarai costretto ad adorare altri dei’ e ancora che la terra ‘vomita’ chi l’ha contaminata con il proprio comportamento”.

Gli ebrei, ha affermato il rabbino, hanno acquisito “la consapevolezza di possedere la terra per volontà divina e, nello stesso tempo, quella della possibilità di vivere in esilio”. “La dispersione viene vissuta come una tragedia sul piano collettivo e individuale, ma anche come il tempo preparatorio per forgiare la generazione del ritorno”. Infine rav Caro ha tracciato una linea che da Adamo ed Eva arriva fino all’attualità degli odierni spostamenti di popolazioni: “L’esilio diventa situazione metafisica ed esistenziale dell’uomo, una condizione dolorosa, ma anche una prospettiva, un’occasione per un miglioramento morale”.

Il presidente Andrea Pesaro ha, invece, ricordato tutte le diaspore che si sono intrecciate nella lunga storia della comunità ebraica ferrarese: quella degli ebrei romani che spostandosi verso l’Esarcato e Ravenna hanno fondato il primo insediamento nell’allora nascente Ferrara, quella degli ebrei ashkenaziti, arrivati dal Nord nel periodo delle persecuzioni in seguito alla Peste nera del Trecento, e quella dell’ebraismo sefardita e lusitano, seguita alla cacciata dalla Spagna e dal Portogallo tra fine Quattrocento e inizio Cinquecento.

Poi “la piccola diaspora” degli ebrei che hanno seguito gli Estensi a Modena, quando Ferrara è tornata fra i domini papali, e quella del Novecento: dopo la Shoah molti hanno scelto gli Stati Uniti, Israele, il Sud America. Infine “la diaspora dei giovani che qui a Ferrara hanno poche prospettive e quindi scelgono comunità italiane più grandi come Firenze o Torino”. Nella seconda metà del Novecento c’è stata però anche un’altra diaspora che ha portato nuova linfa alla comunità ferrarese: “quella degli ebrei arabi negli anni Sessanta e Settanta”.

E proprio al poco conosciuto tema dell’esodo dell’ebraismo arabo è stato dedicato l’intervento di Bensoussan, che l’ha chiamata “un’emigrazione silenziosa”. La scomparsa di “una vera e propria civiltà”, ebrei presenti in Iraq da 2.400 anni, in Marocco da 2.200: nel 1945 nel mondo arabo c’erano “fra i 900.000 e il milione di ebrei”, “oggi ne restano 4.000”. “Non c’è stato genocidio o espulsione di massa”, ma “una segregazione sorda, ostacoli, esclusione etnica, una vita contrassegnata dall’insicurezza e dalla mancanza di sbocchi economici”, che ha spinto la popolazione ebraica ad andarsene, portando di fatto a una “purificazione etnica”.

La ragione non è, come sarebbe facile pensare, il conflitto arabo-israeliano: il sionismo e Israele sono stati “un acceleratore”, ma la causa profonda, secondo lo storico francese, va ricercata nel lungo periodo, nella “condizione ebraica nelle terre arabe-musulmane”. Nel mondo arabo musulmano “l’ebreo è sempre stato considerato soggetto ‘protetto’, come il cristiano, cioè tollerato: potevano esercitare la propria religione solo a condizione di rispettare determinati vincoli”, “un soggetto colonizzato dall’interno”. A questo, secondo Bensoussan, va aggiunto un certo “antigiudaismo dottrinale come fondo culturale e intellettuale”.

Questo stato di cose si incrina, secondo Bensoussan, con il processo di emancipazione ebraica della fine dell’Ottocento, con la politica di colonizzazione da parte delle potenze europee prima e con il processo di decolonizzazione poi, che porta i movimenti nazionali arabi a vedere gli ebrei come una quinta colonna. Nella ricostruzione dello storico francese, ad aggravare queste tensioni si aggiunge poi il carattere “sempre più etnicista, basato sulla razza” del nazionalismo arabo negli anni Venti, Trenta e Quaranta del Novecento: “gli ebrei vengono esclusi perché arabi non di nascita, ma in senso culturale. Parlano arabo, la loro musica e la loro cucina sono arabe”.

La Palestina e Israele per Bensoussan non sono che “il simbolo del risentimento arabo musulmano” che non distingue più fra ebrei e sionisti.

“Se avete dieci ebrei e ne ammazzate cinque, quanti ne rimarranno vivi?”: questo è il problema di matematica che una bambina ebrea magrebina è stata chiamata a risolvere dal suo insegnate arabo musulmano nel 1957. Ecco perché, fra violenze e misure di esclusione economica, sociale e culturale, “la stragrande maggioranza degli ebrei arabi se ne andrà” tra il 1945 e il 1960.

Alla fine, dal pubblico arriva l’inevitabile domanda: ma allora con i flussi migratori che stanno arrivando in Europa dal Medio Oriente, c’è il rischio che si aggravi l’antisemitismo? E George Bensoussan risponde senza incertezze: “Sì, senza dubbio”.

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