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10 Settembre 2017
Pavia torna capitale del regno longobardo con una mostra sull'Italia del VI e VIII secolo

Un popolo che cambia la storia

di Redazione | 5 min

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Pavia torna capitale del regno longobardo, ospitando la prima tappa di una importante mostra che fa il punto sulla grande stagione vissuta dall’Italia tra VI e l’VIII secolo, quando il popolo di Alboino acquisì il controllo di un’ampia porzione dei suoi territori. Una stagione cruciale, che ebbe significativi riflessi politici, economici e culturali e che l’esposizione documenta alla luce delle più recenti acquisizioni.

Il titolo dell’importante mostra (catalogo Skira) aperta fino al prossimo 3 dicembre nelle Scuderie del Castello Visconteo di Pavia è Longobardi. Un popolo che cambia la storia, a Cura di Federico Marazzi e Gian Pietro Broglio. Si tratta di un evento culturale di grande rilievo, per il quale quasi 100 musei hanno prestato le loro opere. I manufatti esposti sono 300 e ci sono voluti 2 anni di lavoro. Le otto sezioni della mostra raccontano (in un allestimento accattivante curato da Angelo Figus) due secoli di storia durante i quali Pavia fu capitale del Regno. Sono 32 i siti e i centri longobardi rappresentati, 17 video originali e le installazioni multimediali, 58 i corredi funebri esposti. Tra le opere più interessanti in esposizione, il più antico dei codici contenente l’Editto di Rotari, le monete coniate dai singoli ducati, gli scheletri di cavallo e due cani dalla necropoli di Polignano Veronese, i corni potori di vetro da Cividale e Castel Trosino e la spada longobarda simbolo della mostra.

Scelta dagli Ostrogoti come seconda capitale dopo Ravenna e allora dotata di architetture pubbliche eccellenti, Pavia viene espugnata nel 572 da Alboino, dopo un assedio lungo tre anni; seguono due secoli (cederà all’assedio dei Franchi di Carlo Magno nel 774) nei quali la città è baricentro delle vicende politiche, economiche e amministrative più rivelanti del regno, che la narrazione di Paolo Diacono, le pur scarse testimonianze materiali, ma anche – e soprattutto – la tradizione, le leggende e le memorie locali, i toponimi tuttora ricordano: dell’emanazione dell’Editto di Rotari al recupero e traslazione di sant’Agostino minacciate dai Saraceni, alle cospicue fondazioni religiose destinate a cenotofi di re e regine.

All’eccezionale fortunata ricchezza dell’immagine di Pavia capitale del regno longobardo corrisponde, oggi, un avvilente povertà di sussistenze monumentali – tale da aver precluso l’inserimento della città nella– rete Unesco dei siti longobardi – così che ben si può attribuire a Pavia quell’appellativo di «straordinaria Atlantide sommersa» da riferirsi a un prezioso tesoro d’arte sopravvissuto solo a livello sotterraneo nelle cripte, oppure tuttora celato da substrati, inglobato in murature, o reimpiegato in nuove architetture, in attesa di essere riscoperto e disvelato.

Non solo le devastazioni belliche e gli incendi, ma la splendida fioritura romanica dopo il Mille – con la necessità di recuperare spazi e materiali pregiati per le costruzioni – e poi la crescente insofferenza estetica per espressioni d’arte «barbariche», almeno sino al romanticismo, avevano determinato il progressivo svanire delle testimonianze materiali di Pavia longobarda.

Così, solo per ritrovamenti fortuiti e rarefatti nei secoli e per episodiche campagne recenti di scavo archeologico, sono stati riportati alla luce elementi architettonici, monili, lapidi ed epigrafi funerarie, nelle raccolte civiche e allestiti nelle sale museali del castello visconteo. Sono reperti di straordinaria qualità – tali da ripagare in parte per la loro unicità ed eleganza, pur nelle ridotte dimensioni, la perdita di strutture monumentali – che per l’appunto sono pervenute ai musei o dall’occasionale riemersione durante interventi urbanistici o dal privato collezionismo antiquario: si tratta, perlopiù, di manufatti da riferire alla celebrazione regia, encomiastica e legati ad ambienti aulici e di corte, che devono la loro sopravvivenza al reimpiego in contesti successivi, in qualità di stipiti, di soglie, di chiusure di pozzi.

Era stato il marchese Luigi Malaspina, colto e illuminato raccoglitore non solo di pittura italiana dal Medioevo al neoclassicismo ma anche di testimonianze artistiche locali, munifico fondatore dei musei pavesi, a voler salvare dall’oblio e dall’incipiente distruzione alcune lapidi tombali di re e regine longobardi tumulate in chiese sconsacrate e soppresse in età giuseppina.

Sotto il portico della sua residenza pavese, il nobile aveva allestito un’ampia raccolta epigrafica di varie età, tra cui l’epitafio ritmico che celebra Cuniperto, «re prospero e prestante che l’Italia piange», acquistato entro il 1819 e proveniente dal monastero di S. Salvatore dove – come recita l’epitafio – «quiescunt in ordine reges». Ma il «colpo» collezionistico di Malaspina fu nell’acquisizione, nel 1832, di pezzi scultorei dal monastero femminile di Teodote (o della Pusteria): l’iscrizione funebre di Teodote e quelli che – per interpretazione dei cugini Defendente e Giuseppe Sacchi – erano stati riconosciuti come i due lati lunghi e quello corto del sarcofago a cassa della giovinetta concupita e violata dal re Cuniperto, cioè i due celebri plutei con i draghi, con i pavoni e con l’agnello.

Oggi la mostra «Longobardi. Un popolo che cambia la storia» è ancora l’occasione per ripensare in parte l’esposizione e ulteriormente valorizzare il patrimonio museale, nel senso sia di esaltare attraverso la luce la preziosità e la raffinatezza di ciascuno dei pezzi esemplari di scultura decorativa e di oreficeria, sia di comunicare in modo più efficace e consapevole con il visitatore, favorendo – grazie anche alla strumentalizzazione informatica e alle ricostruzioni virtuali – la conoscenza dei contesti architettonici di provenienza e inducendo a immaginare, suggestivamente, la forma urbana di Pavia tra la metà del VI secolo e la fine dell’VIII secolo.

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