Vigarano
3 Agosto 2017
Al suo ritorno «non credevano alle mie parole, allora io per vent’anni non ho più raccontato niente». Il ricordo dello storico Davide Guarnieri

Addio Attos Minarelli, sopravvissuto a Mauthausen

di Redazione | 4 min

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di Davide Guarnieri

Stavo guardando un programma televisivo all’interno del quale un esponente di Casa Pound ha affermato che le leggi razziali erano state un semplice ‘incidente di percorso’ all’interno del Ventennio fascista. La sera prima, il 30 luglio, Aurelio Minarelli, figlio di Attos mi aveva comunicato la scomparsa del papà, nato a Vigarano Mainarda il 19 febbraio 1923, deportato a Mauthausen e sopravvissunto alla detenzione. Avevo avuto il piacere ma sopratutto l’onore di conoscerlo alcuni anni fa e di raccogliere, durante diversi incontri, le parole ed i ricordi della terribile tragedia vissuta in gioventù.

Mentre si trovava con la divisione Monterosa nell’astigiano, Attos disertò ed entrò nel movimento partigiano. Partecipò a diverse azioni contro tedeschi e fascisti e poi cadde in un’imboscata: fermato, picchiato e torturato da italiani, quando ormai credeva di essere scampato alla deportazione, fu trasferito dal carcere ‘Le Nuove’ di Torino al campo di Gries, il Durchlager (campo di transito) nei pressi di Bolzano.

Da lì, dopo un lungo viaggio in treno, durante il quale vide dilaniare con il mirino di un fucile la carne delle braccia di due compagni che avevano tentato la fuga, giunse a destinazione: «Arriviamo e c’era scritto ‘Mauthausen’, un nome come tutti gli altri!».

Scendendo gli diedero una pagnotta di pane, ma era ghiacciata. La spaccò su un binario e nel tragitto dalla stazione al campo la mangiò gelata. Erano arrivati in pieno giorno e gli abitanti del villaggio che incrociavano salendo al campo abbassavano il capo. Appena entrati li fecero spogliare ed a cinquanta per volta vennero fatti scendere in una stanza in cui c’erano i bagni. C’era anche il barbiere che tagliava i capelli corti, con una riga totalmente rasata in mezzo alla testa, «perché a noi ogni sette o otto giorni ci passavano il rasoio eh, guai se ogni otto giorni non la facevi la riga!». Era un segno indelebile di riconoscimento: se anche fossi riuscito a fuggire, quella riga ti avrebbe reso riconoscibile anche tra mille persone. Gli rasarono tutti i peli. Poi risalirono: gli diedero qualche indumento e quindi via in baracca, in quarantena. «Io avevo un giacchettino con la toppa di zebra (a strisce, intende) di dietro, guai se non avevi la toppa!». La sera successiva ci fu la registrazione e l’assegnazione del numero di matricola: il suo era 115616.

Fu destinato al lavoro al sottocampo di Gusen I, a lavorare per la Steyr come fresatore: l’accusa di sabotaggio era sempre dietro l’angolo, sia se sbagliavi troppi pezzi sia se rompevi più di tre frese per ogni turno di lavoro che durava dodici ore.

Nella sua baracca costruirono un bilancino per misurare esattamente il pane spettante ad ognuno degli uomini. Oltre al pane, consegnavano cinquanta grammi di margarina. Un giorno nel rancio Attos trovò l’osso del ginocchio di una mucca:”come sei fortunato!” – gli dissero i compagni. Portò tutto il giorno quell’osso con sé, succhiandolo e sgranocchiandolo. Mangiava anche quello che trovava: «Anche l’erba, sì. Quando suonava l’allarme ci mandavano in un rifugio e si passava in un prato. C’era quell’erba ‘fiocchina’: com’era buona!».

Racontò anche cosa fecero i russi quando ormai si stava avvicinando la fine: ricordando la terribile morte inflitta al generale dell’Armata Rossa Dimitry Karbyshev, che aveva tentato la fuga con alcuni suoi compagni e che fu lasciato congelare una notte, legato ad un palo, con un filo d’acqua che gli scendeva addosso da una botte, Attos descrisse come a pochi giorni dalla liberazione del campo, quando SS e Whermacht erano già scomparse, «uno urlò “gli americani, gli americani”. Allora i russi chiusero i portoni e picchiarono ed uccisero i kapò. I russi non dimenticarono nulla di ciò che avevano subito».

Finalmente il ritorno. Il treno che lo riportava in Italia si bloccò a Linz. Attos proseguì su camion sino a Bolzano, da dove ripartì con un gruppo di imolesi; scese a Ponte Rodoni nei pressi di Bondeno, poi a piedi fino a Vigarano Mainarda e da lì, con una bici presa in prestito, arrivò a casa. «Sono arrivato sotto il portico in bicicletta e c’era mia sorella e la cuginetta e due bambini». Non avevano più notizie di lui da quando era partigiano.

Dopo il tuo ritorno i tuoi compaesani, i tuoi amici, ti chiedevano qualcosa? «Ridevano. Non credevano alle mie parole, allora io per vent’anni non ho più raccontato niente. Chi è che ti poteva credere? Non ti credeva nessuno. Non si poteva raccontare nulla perché ti ridevano in faccia». Quando arrivò a Mauthausen pesava circa 100 chili, ritornò che ne pesava 38.

Ogni volta in cui ho incontrato Attos lo guardavo negli occhi e mi chiedevo cosa dovevano aver visto, cosa dovevano aver fatto imprimere nella sua mente. Ora che Attos ci ha lasciato, porterò per sempre con me le sue parole, ma soprattutto il sorriso che mi ha sempre accolto ad ogni nostro incontro e che avrebbe sfoderato, amaramente, anche dinnanzi alle scellerate parole dell’esponente di casa Pound.
Ciao Attos, è stato un onore averti conosciuto.

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