Lettere al Direttore
19 Luglio 2017

Sulla formazione

di Redazione | 8 min

Durante l’intervista concessa a Marco Zavagli, Direttore Responsabile di www.estense.com, il 17 Luglio scorso, il Sindaco di Ferrara, Tiziano Tagliani, ha toccato anche il tema della formazione:

“È la formazione, assieme al debole tessuto della pmi locale, l’anello debole che ci fa perdere il treno dell’Emilia-Romagna secondo il primo cittadino…”

La formazione è davvero un tema cruciale per la nostra sopravvivenza. Vale la pena parlarne.

 Educazione e Formazione

La “educazione” è quel processo attraverso il quale si cerca (di solito senza molto successo) di produrre persone mature e responsabili e cittadini ben integrati. Questo compito è affidato alla scuola dell’obbligo, tra i sei ed i sedici anni, ed alle scuole superiori, fino a 18 anni di età.

Al termine di questa prima fase di “costruzione” del cittadino, una parte degli studenti (non tutti) prosegue gli studi in quello che diventa un percorso di “formazione professionale”. Questo tipo di formazione può essere di livello “elementare”, come avviene per i corsi orientati alla formazione di operai specializzati e tecnici di primo livello, o può essere di livello più elevato, come avviene per gli istituti tecnici, per i licei e per l’università. Anche se può sembrare strano, infatti, anche il Liceo Classico è un “istituto di formazione professionale”: ha lo scopo dichiarato di formare i professionisti del settore archeologico e storico. Le università, a loro volta, devono formare i professionisti della varie discipline (Medicina, Ingegneria, Lettere, etc.). In tutti i casi, lo scopo di questa formazione non è più (soltanto) la produzione di persone mature e responsabili ma (soprattutto) la produzione di professionisti in grado di lavorare all’interno delle aziende private e delle strutture pubbliche (scuola, università, etc.).

Bisogna tenere ben presente questa differenza quando si parla di formazione. Diversamente, si rischia di scrivere pamphlet come “L’utilità dell’inutile. Manifesto” (Nuccio Ordine per Bombiani, 2013) senza rendersi conto che, anche se è certamente vero che deve esistere uno spazio per l’Inutile che ci fa diventare uomini maturi e responsabili, è anche vero che devono esistere un tempo ed uno spazio per l’Utile ed il Necessario che ci fanno diventare lavoratori e professionisti in grado di mettere insieme il pranzo con la cena.

 Formare dipendenti, formare imprenditori

C’è una enorme differenza tra formare lavoratori dipendenti e formare liberi professionisti ed imprenditori. Nel caso dei lavoratori dipendenti (impiegati delle aziende private, impiegati statali e para-statali) l’inserimento in organico e lo sviluppo di carriera sono dominati essenzialmente da concorsi che si sostengono per titoli (diploma, laurea, etc.) e per esami (scritti, orali e di laboratorio).

Questo vuol dire che, per avere successo, è necessario diventare bravi nel superare esami. Poco importa se non si sa fare nulla di utile: questo aspetto non verrà mai messo in discussione, nè durante gli esami necessari per accedere ad una carriera, nè durante il suo sviluppo successivo. Bisogna solo essere bravi nella gestione degli esami (gestione dell’ansia, comunicazione, etc.) e nella loro preparazione (selezione e reperimento dei materiali, studio, simulazioni, etc.).

Questa è la ragione per cui alcune aziende cercano di tenersi il più alla larga possibile da questi “professionisti”. Si tratta, infatti, di “professionisti nel superamento degli esami”. Nulla di più (e nulla di utile per il datore di lavoro).

Nel caso dei liberi professionisti (come molti avvocati, medici, ingegneri ma anche molti periti industriali) l’accesso ad una carriera ed il suo sviluppo sono regolati dalla capacità di queste persone di risolvere i problemi dei clienti finali e di intrattenere rapporti proficui coi clienti stessi. Per riuscirci, è necessaria una notevole padronanza della propria disciplina ma anche una notevole capacità di progettare, gestire e perseguire i propri obiettivi professionali e personali. Bisogna essere capaci di capire quali sono i settori più promettenti, di capire cosa è necessario “sapere” e “saper fare”, bisogna essere capaci di studiare queste materie, di impadronirsi di questi strumenti e di pubblicizzare le proprie capacità. Bisogna anche saper organizzare e gestire la propria attività lavorativa.

E qui casca il primo asino: il nostro sistema scolastico ed universitario è tradizionalmente molto bravo a formare lavoratori dipendenti (soprattutto dipendenti pubblici) ma è quasi del tutto incapace di formare lavoratori autonomi, liberi professionisti ed imprenditori in grado di sopravvivere sul libero mercato.

Questo è un enorme problema perché i posti di lavoro per lavoratori dipendenti sono già svaniti come nebbia al sole negli ultimi 10 o 20 anni e rischiano di scomparire del tutto nei prossimi 20 o 30 anni. In altri termini, stiamo “formando” i nostri giovani per un mercato del lavoro che già adesso non esiste quasi più e che comunque sarà sempre più in crisi durante la loro vita lavorativa.

 De-provincializzare

A Gennaio 2017 sono andato a vedere “Arrival”, il film di Denis Villeneuve con Amy Adams, Jeremy Renner e Forest Whitetaker. Ho trovato davvero irritante la rappresentazione che Villeneuve ha voluto dare del fenomeno delle lingue, del mondo della linguistica e dei linguisti. In Arrival, infatti, lo studio di una lingua (aliena, in questo caso) è ridotto ad un esercizio di crittoanalisi.

Chiunque abbia studiato una lingua straniera in vita sua (con l’intento di riuscire ad usarla davvero per comunicare con uno o più parlanti nativi) sa benissimo che, in realtà, le lingue non assomigliano affatto al giochino di enigmistica che appare in questo film. Nessuna lingua evolve con l’intenzione (implicita od esplicita) di risultare incomprensibile ai “non-nativi”, come avviene per le “coffe mug stain” di Arrival. Anzi: il successo di una lingua dipende spesso dal suo funzionamento regolare e prevedibile; una regolarità che permette agli stranieri di impadronirsene rapidamente. Questa, in effetti, è una delle ragioni per cui al giorno d’oggi si usa l’inglese per comunicare in ambito internazionale invece del latino (che pure era diffusissimo fino al secolo scorso).

Nonostante questo, la nostra scuola continua ad insegnare le lingue straniere – e l’inglese in modo particolare – proprio come insegna l’algebra: poca, pochissima pratica e molta, moltissima grammatica. Decisamente troppa. Un esercizio di crittoanalisi degno di Bletchley Park. Il risultato finale è sotto gli occhi di tutti: quasi nessuno parla davvero l’inglese (od una qualunque altra lingua straniera) e la nostra società e la nostra economia continuano tranquillamente a dormire sugli allori come se il mondo, là fuori, proprio non esistesse.

Incapaci di comunicare con il mondo esterno, come siamo, non ci sfiora nemmeno l’idea che si possa chiedere un abbassamento delle barriere doganali, in modo che noi si possa invadere i mercati più ricchi e meno sfruttati, come la Cina e gli Stati Uniti. No. Noi continuamo a pretendere che vengano erette sempre nuove barriere per impedire che gli “altri” invadano il nostro asfittico mercato nazionale, fino ad ottenere effetti paradossali come quelli descritti in questo articolo:

“Alcuni anni fa i produttori della “focaccia di Recco” sono riusciti a ottenere una severissima certificazione: oggi una focaccia si può chiamare “di Recco” soltanto se viene seguita minuziosamente la complessa ricetta e solo se la focaccia viene prodotta nel comune di Recco e in un altro paio di piccoli comuni limitrofi. Lo scorso dicembre il “Consorzio focaccia di Recco” ha aperto uno stand alla fiera dell’artigianato di Rho dove distribuiva assaggi di focaccia di Recco. Quando sono arrivati i carabinieri lo stand è stato chiuso e i gestori sono stati denunciati per frode alimentare. Se la focaccia si può produrre solo a Recco, e non si può surgelare e quindi trasportare, allora fuori da Recco non si può nemmeno mangiarla: quindi anche uno stand promozionale dello stesso “Consorzio focaccia di Recco” è illegale. Di fatto, per proteggersi dalla virtuale concorrenza, i produttori della focaccia di Recco si sono tagliati ogni possibilità di crescere ed esportare il loro prodotto.”

Da “La sacralità del “made in Italy” è una rovina”, apparso online su “Il Post” il 7 Giugno 2016.

Questo si chiama provincialismo. È una malattia invalidante, simile alla paranoia, che si trasmette da un organismo all’altro attraverso l’ignoranza. Non è grave solo perché ci impedisce di comunicare e di fare affari con il resto del mondo. È persino più grave per il fatto che rende evidente la nostra mancanza di contatto con la realtà e con il XXI secolo.

Chiunque abbia studiato seriamente una lingua straniera sa bene che per riuscire a comunicare con i “nativi” non basta imparare il lessico a memoria e saper usare la sintassi in modo corretto. Bisogna soprattutto studiare il loro mondo, capire come lo percepiscono e capire come lo rappresentano a parole quando comunicano con altre persone. In altri termini, bisogna diventare esperti della Realtà prima che della lingua. Non solo esperti della loro realtà ma della Realtà in genere. Una Realtà che include il loro mondo ed il nostro e che vive immersa nel XXI secolo.

È questa mancanza di contatto con la Realtà che ci rende incapaci di affrontarla e di sopravvivere all’impatto del XXI secolo.

Conclusioni

Se vogliamo uscire dalle paludi in cui ci troviamo, è necessario trovare il modo di produrre imprenditori e professionisti, non impiegati. Non abbiamo più posti di lavoro da assegnare ad ancora un’altra generazione di impiegati. Abbiamo bisogno di una generazione di persone che i posti di lavoro sappia crearli.

Questa nuova generazione di persone deve essere in grado di considerare Ferrara come un punto di partenza, non come un punto di arrivo o – peggio! – come un recinto invalicabile. Deve essere in grado di guardare oltre le Mura Estensi senza tremare di paura.

Alessandro Bottoni

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