Cronaca
13 Giugno 2017
Le motivazioni dei giudici felsinei che hanno confermato la condanna a trent'anni di carcere

Omicidio Tartari. Neppure i giudici d’appello credono a Pajdek

di Redazione | 2 min

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Parla e respinge ogni accusa il 49enne ferrarese finito a processo per adescamento di minore, pornografia minorile e corruzione di minorenne, dopo che tra febbraio e novembre 2018 - secondo la Procura - avrebbe adescato una ragazzina di 14 anni, compagna di scuola di sua figlia, prima inviandole foto dei suoi genitali e poi inducendola a fare altrettanto, attraverso lusinghe e regali - come ricariche telefoniche - per provare a ottenere in cambio la sua fiducia

A destra, Ivan Pajdek

«Tutto depone per la programmazione dell’uccisione del rapinato, o comunque per la concreta accettazione del rischio della morte». Anche per la Corte d’appello di Bologna Ivan Pajdek e compagni (Patrik Ruszo e Constantin Fiti) non si sono preoccupati affatto se con le loro azioni violente si sono presi anche la vita di Pier Luigi Tartari e non solo i suoi soldi.

I giudici felsinei – chiamati ad esprimersi sull’appello per la sentenza con la quale il gup di Ferrara ha condannato lo stesso Pajdek a 30 anni di carcere in rito abbreviato – hanno infatti confermato la pena, rilevando in più occasioni la scarsa attendibilità dell’imputato e delle sue mille ricostruzioni di quel tragico giorno di settembre 2015, tutte dirette a discolparsi, a dire che lui no, non voleva la morte di Tartari e che era tutta colpa dei suoi due complici. Per la corte, quella fornita dal capo banda è una «ricostruzione ‘utilitaristica’», smentita «dalla lettura delle emergenze probatorie, oltre che dalla logica».

Una versione che già non aveva convinto il tribunale estense e che non ha convinto neppure la Corte d’appello: «Che la rapina prevedesse violenza fisica ai danni del Tartari – scrivono i giudici – è evidente sin dalle prime fasi dell’agguato». Una violenza «esercitata sulla povera vittima [che] non era finalizzata solo all’immobilizzazione, bensì rivolta a produrre lesioni dolorose», fino alla crudeltà, cercata scientemente come dimostrano «le modalità quasi maniacali di imbavagliamento della povera vittima, da cui è derivato il decesso per soffocamento: surreale appare invero l’affermazione difensiva per cui l’intenzione dell’imputato era unicamente di provocare lesioni al povero Tartari!».

E a nulla importa – se non, purtroppo, ai poveri familiari della vittima, i fratelli Marco e Rita, rappresentati in giudizio dall’avvocato Eugenio Gallerani – se la volontà iniziale della banda non era quella di concludere la rapina con un omicidio, perché dell’escalation di violenza di cui sono stati protagonisti indiscussi, sono essi stessi pienamente responsabili: «Infatti – scrivono ancora i giudici – ove si programmi un delitto che rientra nell’ambito di un’azione violenta orientata alla persona, la progressione e la degenerazione nell’evento lesivo maggiore o, addirittura, nella morte è ipotesi plausibile».

Trent’anni erano, trent’anni rimangono anche dopo la sentenza d’appello.

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