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20 Febbraio 2017

Una donna, madre e insegnante davanti alla tragedia di Lavagna

di Francesca Boari | 5 min

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“Il “disinteresse” non ha valore né in cielo né sulla terra; i grandi problemi esigono tutti il grande amore e soltanto spiriti rigorosi, netti e sicuri, soltanto gli spiriti solidi, ne sono capaci. Altro è se un pensatore prende personalmente posizione di fronte ai suoi problemi in modo da trovare in essi il suo destino, la sua pena e anche la sua maggiore felicità; altro è se si avvicina in modo “impersonale”, cioè se li tocca e li attinge solo con i pensieri di fredda curiosità. In questo ultimo caso niente può risultarne, giacché una cosa è certa, ed è che i grandi problemi, ammesso che si lascino raggiungere, non si lasciano guardare dai deboli e da esseri dal sangue di rana” (F. Nietzsche, La gaia scienza)

Ci siamo. Di nuovo. Tutti a cercare un possibile colpevole al tragico accadimento di Lavagna. Italiani spaccati come sempre a stendere chiacchiere sul comportamento di una madre che ha pensato fosse giusto chiedere aiuto alla Guardia di Finanza per portare il figlio sulla retta via. Non condivido la strumentalizzazione, voluta o non voluta, poco importa, di Roberto Saviano per avviare un ragionamento di politica di legalizzazione delle droghe. Non lo condivido in questo contesto. Non è qui la radice del problema. Non a mio avviso, s’intende.

La riflessione deve partire da quella mattina, una come tante, in cui un giovane sedicenne va a scuola. La madre, evidentemente, è già, da diverso tempo, a conoscenza del fatto che il figlio fa uso di hashish  e “si è messo in un brutto giro”. Quella mattina si rivolge alla Guardia di Finanza, denunciando il figlio. La Guardia di Finanza aspetta il sedicenne fuori da scuola, lo trova in possesso di droga. Il giovane confessa di averne 10 grammi a casa ed è pronto a consegnarli alle forze dell’ordine, che lo seguono nella sua abitazione.  La consegna avviene in presenza della madre. Cosa è accaduto in quei momenti che precedono il gesto estremo della morte volontaria? Come si è sentito? Cosa ha pensato? Quale terribile naufragio e quale smarrimento e  ancora sconforto lo hanno portato a gettarsi? Un gesto estremo, un “grande problema”, su cui pochi opinionisti si stanno interrogando “con spirito rigoroso e solido”. Ma davvero vogliamo pensare che il suicidio sia avvenuto per un problema che a che fare con la legalizzazione delle droghe? Oppure vogliamo fare ragionamenti del tutto inadatti sullo stato sociale della famiglia?

Non ho voglia di esprimere il mio parere al riguardo in questo contesto. Finirei per cadere anche io nel tranello mediatico di questi giorni.

Non è questo il fulcro della tragedia del sedicenne che grida ad un mondo sordo e cieco un dolore immenso e una radicale incapacità di affrontare la vita.

Chi guarda i nostri ragazzi? Chi li ascolta?  Chi li comprende?  Gli psicologi,  gli psichiatri nel salotto di Bruno Vespa, occhi sempre più appannati e disinteressati di educatori ed insegnanti, i sociologi, genitori sempre più affaccendati e stanchi. Intorno a loro solo parole senza “grande amore” e silenzio.

Si è costituita così una sorta di grande tribù con un bassissimo livello di autostima, una sensibilità fragile, smarriti nella inerzia indotta dagli influssi della televisione e dei social. Sono piccoli, minuscoli, invisibili, senza peso, senza radici. Incapaci di re-agire, di orientarsi quando si trovano dinnanzi alle difficoltà del quotidiano. Non conoscono la responsabilità che consegue all’agire perché si muovono solo nella dimensione vana del fare.

Non hanno accesso a quella educazione sentimentale che passa necessariamente attraverso il racconto, il mito, la letteratura. Hanno tutto e vivono scalzi e impietriti nelle stanze del niente. Non sanno che cosa sia il bene e che cosa sia il male, non si interrogano, si appoggiano ai modelli più semplici e immediati, quelli che richiedono il minimo sforzo e garantiscono il risultato.

Si è smarrito completamente il senso del conoscere profondamente se stessi, dedicare il tempo vuoto alla ricerca di sé.

A quel giovane e a tanti altri mi viene da rivolgere solo questi spunti di riflessione, con i quali faccio i conti ogni giorno della mia vita di donna, di madre e di insegnante.

I giornali e gli opinionisti stanno invocando principi morali inadatti, desueti, nel tentativo di mostrare come “sia bene” pensare e agire in situazioni estreme.

Mi viene in mente Socrate che nel tentativo di esaminare se stesso e gli altri per insegnare a se stesso e agli altri come si pensa non poteva far altro che porre in questione ogni norma e ogni misura allora in vigore.

I moralisti più rigorosi (intendo quelli che credono di avere capito tutto e che pensano che la possibilità di rimedio a tanto diffuso disagio esistenziale sia dietro l’angolo), sono poi quelli “che aderiscono più facilmente a qualunque regola o norma venga loro imposta; non ci vuole poi chissà cosa per dimostrare che i membri più rispettabili della società, quelli che i francesi chiamano i “bien-pensants”, sono più propensi a trasformarsi in gente poco o niente affatto rispettabile, e perfino criminale, di quanto lo siano i bohemiens o gli hippies”( H. Arendt, Alcune questioni di filosofia morale, Einaudi).

Io in questo gesto ho sentito un urlo primordiale collettivo. L’eco deve tradursi nella urgenza di tornare ad interrogarsi sull’unica terapia possibile, una terapia che richiede tempi lunghi e volontà, e per tornare alle parole di F. Nietzsche, anche cuori grandi, pronti a mettersi in discussione e a fermarsi a pensare. E a chi volesse ribattere che pensare non è agire, io rispondo, senza alcuna esitazione, che non esiste un agire in direzione di senso che non abbia come premessa un lungo momento di puro pensiero.

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