Attualità
17 Febbraio 2017

Headquarter, metti un Alieno in hotel

di Elena Bertelli | 6 min

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“Perciò Cosimo, con la parte della sua mente che veleggiava distratta – un’altra parte di lui invece sapeva e capiva tutto in precedenza – formulò questo pensiero: le ciliegie parlano.”

Italo Calvino, Il Barone rampante

 

Ti ricordi la voce della nonna quando ti raccontava le favole? Avevi 3 anni, o giù di lì. Anche tu, impavido cinquenne, sezionavi insetti? A 6 ti arrampicavi sugli alberi e dicevi che non saresti più sceso, anche se poi, il babbo ti ha convinto a saltare giù, a guardare bene dove affondano le radici, dove nascono i funghi e a riconoscere il colore e le forme delle cose velenose. Poi è arrivata la scuola, i numeri, i regoli e le regole da mettere sempre in discussione. Te lo ricordi il primo bacio? Forse sì, potrebbe esser stato all’Academia*, lì la domenica pomeriggio si limonava duro. Le trasgressioni, quelle vere, sono arrivate più tardi, a 16 anni hai capito che i club, con la vera musica, le giuste luci e preziose consumazioni erano il posto giusto, niente regole da mettere in discussione: il segno si esprime, energia pura che esce da un corpo nervoso. Hai capito cosa volevi essere.

Sei giovane come la notte quando decidi che è il momento di chiudere dietro le spalle la porta della cameretta con le tue cose di bambino e di ragazzo. Madre, posa lenzuoli bianchi, non far entrare la polvere. Si va. Non troppo lontano, quanto basta per trovare il modo di lavorare su ciò che sei, dentro e fuori.

* La prima disco frequentata in piena tempesta ormonale

Ferrara e il tempo del teatro, che ti insegna a usare il ricordo per trovare l’espressione giusta e consegnare al tuo pubblico il personaggio che incarni. Oggi sei Amleto, ieri eri Mackie Messer, gli anni passano e non ti accorgi che Stanislavskji ti consuma il passato, sterilizza la memoria. Chi sei? Ti ritrovi nell’alieno, un altro da te, che consolida la tua presenza resa evanescente dal teatro. Lo disegni dappertutto, è lo specchio dell’io che stai cercando, un segno che si fissa nelle città del mondo, un modo per restare più a lungo, dove tu puoi vivere un giorno e una notte soltanto: l’arte è dannazione, l’arte è la tua salvezza.

Salvare il ricordo diventa una missione, se il lavoro di attore l’ha stressato e spremuto fino a disperderne la componente emotiva. Lo capisci osservando il ventre della tua Maria riempirsi di vita che questa è l’occasione per recuperare tutto quanto. Vai a riprenderti il passato, a sollevare i lenzuoli bianchi, a scavare nella memoria per ricollocarla nel pacchetto cromosomico in consegna all’erede.

Di nuovo a Forlì per un’estate, così nasce Heartquarter: dal bisogno di riprendere in mano gli strumenti del pittore e ricomporre sulla tela i primi 20 anni di vita, riportarli in Romagna, dove hanno avuto origine, in un luogo simbolo del tempo che si è fermato. Hai riaperto per un mese Cereali Confezioni: sei riuscito a far tornare a vivere anche quello.

Ma Ferrara che ti ha adottato e non si muove di certo fino a Forlì, vuole anche lei la sua parte e allora Heartquarter si sposta, si adagia, di nuovo, in spazi non convenzionali: l’Hotel Annunziata in Piazza Castello e lo Showroom di Paolo Gavioli in Corso Porta Mare. Di più: si aggiungono altri lavori e la mostra cambia nome, si trasforma in HEADQUARTER perché il cuore, quello resta in Romagna. L’Emilia è per te la casa del cervello, Ferrara la città che ti continua a mettere alla prova, ti offre stimoli da ricercare più spesso nel marcio, nel vile che non nelle proverbiali bellezze Rinascimentali. Ferrara ha adottato l’Alieno e il tuo genio, anche Ferrara merita un omaggio.

COSA C’È DENTRO?

Heartquarter era una serie, da 1 a 19: un lavoro per ogni anno vissuto a Forlì. Non una retrospettiva, non un’antologica, sono lavori nuovi, progetti recenti, assemblaggi mai visti, stimolati dal ricordo – spesso fumoso.

Niente di organico, nessun legame tra un’opera e l’altra, anche se la cifra stilistica è chiara e il timbro inconfondibile. La materia pittorica e il colore sono l’elemento che tiene insieme gli oggetti della ricerca dell’artista, la comfort zone su cui si posa ogni reminiscenza del passato, anche la più dolorosa.

C’è tanta musica in questa mostra, dai suoni grezzi, della formazione iniziata alle Feste de L’Unità, fino alle composizioni via via più ricercate, cui l’orecchio si è abituato in anni di ascolto elettronico. In mezzo c’è tutto il ballabile, il vibrare delle casse, le consumazioni mai bevute, la penombra dei privée di una festa che non è mai finita e continua tra le mani di David Love Calo e PeeDoo.

E poi c’è lui: il portatore di cose dall’altro mondo: l’Alieno, 4 ovali, 6 stacchi di penna, un volto inconfondibile. Ma guardatelo bene: non è mai uguale, perché l’alieno ha un cuore e un’espressione sempre diversa, nel guardare fuori, verso lo spettatore. È a lui che dobbiamo affidarci se vogliamo conoscere l’universo dentro a questi quadri. Un alter ego, un tramite tra due realtà, la nostra e quella dell’artista, una fuori, una dentro l’opera.

L’alieno è umano, perché sa ammiccare, giocare, con lo spettatore. L’alieno, a pensarci bene è pronipote di una tradizione di personaggi che si inaugura con Masaccio si consolida con Piero della Francesca e si fa sfacciata nel Déjeuner sur l’herbe di Manet: uomini e donne dipinti, ma non per questo meno reali, investiti di un ruolo importantissimo, far vivere l’opera nel presente di chi la guarda.

Heartquarter ha messo in piazza una dimensione intima e privata ma, allo stesso tempo, è il risultato di una continua riflessione dell’artista sul contesto in cui vive e in cui sta crescendo un erede. È un incidere dolorosamente e profondamente sul passato e una ricerca appassionata sul contemporaneo.

Giunta a Ferrara, trasformandosi in Headquarter, l’esposizione si arricchisce di lavori realizzati nell’ultimo periodo (non parleremo di maturità perché diventando padre si torna bambini con tutta l’irriverenza che ne consegue), nati in questa città ma mai slegati dalle origini.

 

Una mostra per ribadire il ruolo dell’artista e del suo lavoro: fare ciò che il mondo attorno gli chiede di fare, lasciando perdere il tentativo di creare qualcosa di bello, perché a quello ci pensa già la natura, che è inimitabile.

Guardare al passato, remoto o più prossimo, è quindi anche riscoprire questi valori, tornare a fare le cose con le mani, risalire sugli alberi e volerci stare ancora per un po’ che il mondo, da lassù, è di chi lo sa raccontare.

 

Questo testo è stato scritto per la mostra Heartquarter e rielaborato in occasione di Headquarter, la personale di Amaducci, a Ferrara dal 18 febbraio al 16 aprile ed è frutto di condivisione di pensieri ed elaborazione di idee con Andrea, Maria e Diego.

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