Spettacoli
28 Ottobre 2016
Il critico d'arte dedica il suo racconto sul grande pittore a Ferrara "luogo della mia passione e del mio desiderio" e alla madre Rina scomparsa un anno fa

Sgarbi, Caravaggio e la rivoluzione della pittura della realtà

di Redazione | 4 min

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(foto di Alessandro Fabbrini)

di Federica Pezzoli

Una conferenza-spettacolo, genere ormai diffuso nei teatri italiani e visto anche nella televisione delle grandi occasioni, ma non può essere così semplice quando a tenerla è Vittorio Sgarbi, impeccabile nei panni di irriverente critico d’arte. È riuscito ad ammaliare per più di due ore la sala del Teatro Comunale Claudio Abbado, gremita fin sul loggione, con la sua originale interpretazione di “Caravaggio”. In scena solo il critico-attore-professore, tre quadri asimmetrici su cui il visual artist Tommaso Arosio proietta le opere e i dettagli del pittore, e le musiche composte ed eseguite dal vivo da Valentino Corvino.

Se c’è lo zampino di Sgarbi, si diceva, non ci si può aspettare una lezione tradizionale nella quale il critico snocciola al pubblico la propria erudizione, illustrando una dopo l’altra le tele di Michelangelo Merisi da Caravaggio. L’intellettuale ferrarese – anche se forse non dovrei appellarlo così perché è una categoria da lui aborrita – non ci spiega Caravaggio, ma il ‘suo’ Caravaggio: rivoluzionario, contemporaneo, forte, ambiguo. E lo fa partendo dalle immagini del cadavere martoriato di Pier Paolo Pasolini e dall’elegia funebre di Alberto Moravia. Pasolini e Caravaggio, due interpreti del loro tempo: “Pasolini si è immedesimato in Caravaggio e Caravaggio è stato il Pasolini del suo tempo”. Due rappresentanti di quella Padanìa concepita nel 1934 dal Roberto Longhi, non solo padre dell’Officina Ferrarese, ma in realtà “inventore della geografia dell’arte italiana”. Padanìa “con l’accento sulla i”, sottolinea Sgarbi, per non confonderla con la Padania di cui suo malgrado porta la responsabilità, perché nata da un infausto colloquio con Umberto Bossi.

Longhi diventa così il trait d’union fra i due artisti: Pasolini allievo di Roberto Longhi all’Università di Bologna e Caravaggio riscoperto dopo tre secoli di silenzio con la mostra del 1951 a Palazzo Reale curata da Longhi.

Caravaggio e Pasolini “neorealisti”, capaci di leggere e interpretare il sottoproletariato urbano, ed ecco sui pannelli apparire i modelli di strada di Caravaggio e i volti dei ragazzi di vita di Pasolini: il “Fanciullo con canestro di frutta” accanto a Ninetto Lauri, “Il bacchino malato” accostato a Franco Citti e infine, in un parallelo quasi crudele, lo sguardo “impunito” del putto di “Amor vincit omnia” come quello di Pino Pelosi nelle immagini dopo l’arresto per l’omicidio di Pasolini.

“Caravaggio pittore edonistico e realista insieme”; “rivoluzionario” perché capace di vedere e rappresentare le cose “da un punto diverso rispetto a tutti quelli venuti prima di lui”, come nella sua “Fuga dall’Egitto”, con protagonisti l’angelo e San Giuseppe, e nella “Conversione di San Paolo” con al centro il cavallo; contemporaneo perché anticipatore sia della fotografia come “rappresentazione di una condizione che appare in un momento”, evidente nel suo “Ragazzo morso da un ramarro”, sia del cortometraggio, perché con la sua “Vocazione di San Matteo” ci fa “passare dalla fotografia al cinema”. E analizzando il quadro realizzato per la Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, Sgarbi fa notare anche un particolare forse sfuggito a molti: la mano con la quale un Gesù più uomo che mai chiama a sè Matteo è straordinariamente somigliante a quella del Dio che dà vita ad Adamo nella Cappella Sistina di Michelangelo.

La rivoluzione caravaggesca della pittura della realtà non è però solo nel realismo delle cose, ma anche in quello “psicologico”: ecco perché le opere successive alla sua fuga da Roma, reo di omicidio, sono cupe, violente, “sempre schiacciate dal senso di colpa e pentimento”.

Ne “Il seppellimento di Santa Lucia” si sente “il male dell’umanità”: il buio, il muro e i due uomini che sovrastano il cadavere della Santa, che mostra una inquietante somiglianza con le immagini iniziali del corpo di Pasolini, contribuiscono a creare un contesto atroce. Fino al celeberrimo “Davide e Golia”, dipinto a Malta, ma portato con sé nel suo ritorno a Roma, dove morirà in circostanze misteriose a Porto Ercole. Entrambi i personaggi rispecchiano Caravaggio: Davide ha “lo sguardo malinconico di chi sa che sta uccidendo un uomo”, anche se è suo nemico, mentre Golia, è un autoritratto del pittore, per lui non c’è speranza di espiazione dal peccato. Caravaggio si è congedato da noi lasciandoci nel dubbio su cosa sia il bene e cosa il male, per questo Il “Davide e Golia” è anche l’opera conclusiva del racconto di Vittorio Sgarbi, che lascia il pubblico con una massima di Borges su Caino e Abele: “Caino dice ad Abele “Scusami fratello per ciò che ti ho fatto”, ma egli risponde: “Sei tu che hai ucciso me o sono io che ho ucciso te?”

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