Attualità
1 Ottobre 2016
A Internazionale a Ferrara le testimonianze di vittime dell’omofobia ‘transnazionale’

Quant’è difficile essere gay e immigrato

di Redazione | 3 min

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unnameddi Federica Pezzoli

Quando si pensa alla concessione dello status di rifugiato o al diritto d’asilo vengono in mente crisi umanitarie, conflitti o persecuzioni politiche. Eppure ci sono persone che, anche se non in contesto di guerra, ogni giorno temono per la propria vita o quantomeno per la propria incolumità fisica e psicologica: sono le persone lgbt, perseguitate nei loro paesi per la propria identità di genere o per il proprio orientamento sessuale.

Spesso quella del migrante è una categoria totalizzante che annulla, agli occhi dell’opinione pubblica, qualsiasi altro riferimento identitario, ma in realtà i migranti omosessuali e transessuali vivono difficoltà specifiche. Delle difficoltà di essere gay e immigrato si è parlato a Internazionale in “Dall’altra parte dell’arcobaleno” attraverso l’esperienza personale di Max e le testimonianze professionali di Cristina Franchini, focal point Lgtb dell’Unhcr, e Giorgio Dell’Amico, referente nazionale per Arcigay su immigrazione e asilo, che da venti anni lavora per conto della Cooperativa Sociale Caleidos presso il Centro Stranieri del Comune di Modena. A intervistarli i ragazzi di Occhio ai media.

“Quella di oggi è un’occasione importante perché su questi temi non c’è un vero e proprio dibattito pubblico”, ha sottolineato Franchini, anche per questo “non ci sono vere e proprie statistiche” sui paesi di provenienza. Potenzialmente, spiega ancora la rappresentante dell’Unhcr, possono venire da qualunque paese perché a essere in pericolo è “la libertà di vivere se stessi”. Ecco perché, secondo Cristina, “è importante che la procedura per la richiesta d’asilo sia garantita da qualsiasi paese si provenga”.

Max è russo, è arrivato in Italia quando i suoi genitori hanno divorziato ed è riuscito a ottenere lo status di rifugiato: suo padre era colonello dell’esercito e non ha mai accettato l’omosessualità del figlio, peraltro mai confessata. Ora abita con il suo compagno a Roma e progettano di sposarsi, quindi “dovrò per forza dirlo a mia mamma”, scherza Max con i ragazzi di Occhio ai media.

Anche Giorgio parte dal racconto di esperienze che incontra nel suo lavoro quotidiano: un ragazzo nigeriano che non voleva essere inserito in appartamento con connazionali, “per non rivivere” ciò che si era lasciato alle spalle in Nigeria, o una coppia di pakistani che, vivendo con i propri connazionali, era entrata in crisi, “è bastato spostarli e ora tutto è tornato a posto”.

“Solitamente – continua Giorgio – quando si scappa da situazioni di pericolo, nel paese di arrivo ci sono comunità nazionali che possono offrire sostegno, per le persone lgbt questo non succede: si scappa da tutto, comprese le relazioni sociali e la famiglia e si sa che i connazionali non daranno una mano”.

Il compito di chi valuta queste richieste d’asilo, spiega Cristina, non riguarda l’identità di genere o l’orientamento sessuale in sé e per sé, ma “se nel paese di provenienza c’è un rischio legato a questa condizione”. “Anche se ci sono linee guida per chi fa le interviste, valutare la storia di queste persone è difficile – racconta Cristina – perché si entra in una sfera molto intima e delicata”.

E sia Cristina sia Giorgio sottolineano che una delle principali difficoltà delle persone migranti lgbt è proprio che “non sanno raccontare la propria situazione e il potenziale pericolo” che corrono nei luoghi d’origine perché spesso “nei loro paesi non c’è nemmeno la parola per definire se stessi” oppure perché nei contesti omofobici in cui hanno vissuto non hanno potuto compiere il proprio “percorso di autoaccettazione” e quindi non riescono a elaborare la propria identità verso l’esterno.

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