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23 Maggio 2016
Esposizione delle lettere a Palazzo Medici Riccardi di Firenze

All’amico caro. Le lettere tra Michelangelo e Vasari

di Redazione | 6 min

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Archivio_Vasari014_bassadi Maria Paola Forlani

Il restauro di un significativo nucleo di lettere di Michelangelo Buonarotti a Giorgio Vasari e la digitalizzazione dell’intero archivio, interventi promossi e diretti dalla Soprintendenza Archivistica e Bibliografica della Toscana, sono state l’occasione per esporre per la prima volta a Firenze i documenti più rilevanti di questo fondo, conservato ad Arezzo presso il Museo Casa Vasari. L’esposizione, Michelangelo e Vasari. Preziose lettere all’ “amico caro” dall’archivio Vasari. A cura di Elena Capretti e Sergio Risaliti, con il patrocinio della Città Metropolitana. Comune di Firenze e Comune di Arezzo si tiene a Firenze, in Palazzo Medici Riccardi fino al 24 luglio 2016.

La mostra si apre con una prima sezione dedicata alla storia dell’eredità di Giorgio Vasari, del suo archivio e, più in generale, della sua memoria come si esprime nella complessa relazione tra il corpus documentario, la biografia vasariana e le vicende ereditarie. Oltre a costruire fonti preziose per la storia dell’arte e della cultura del Rinascimento, queste carte rappresentano un apparato memoriale e autocelebrativo a cui Vasari consapevolmente affida la propria effige d’artista destinato ad una fama imperitura. Svolgono la stessa funzione le disposizioni testamentarie con le quali Vasari cerca di assicurare la trasmissione ai posteri del suo patrimonio e delle carte. La successiva, complessa, storia della memoria vasariana viene ripercorsa nelle sue tappe fondamentali, fino agli sviluppi recenti.

La sezione seguente espone le lettere che documentano il rapporto privilegiato che Giorgio Vasari intrattiene con il suo principale committente Cosimo I de’ Medici, ma anche i sodalizi instaurati con letterati ed eruditi del tempo come Paolo Giovio, Annibale Caro, Vincenzo Borghini, iconologo ufficiale del duca Medici, accompagnano la sua produzione artistica suggerendogli “invenzioni”, allegorie, genealogie illustri, rievocazioni mitologiche con effetti profondi, evidenti anche nelle pitture che l’artista realizza in Palazzo Vecchio.

Il percorso espositivo prosegue raccontando come nasce l’idea e la storia de Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti, che Vasari pubblica a Firenze in due edizioni, entrambe con una dedica al duca Cosimo I de’ Medici: la prima uscita nel 1550 nei tipi di Lorenzo Torrentino e la seconda ampliata e corredata dei ritratti incisi degli artisti, edita dai Giunti. Le Vite sono di fatto la prima storia dell’arte moderna, il cui culmine – formale, morale e spirituale – è rappresentato da Michelangelo Buonarotti (1475 – 1564) di cui Vasari, in forza del rapporto speciale con l’artista, si ritiene erede e discepolo privilegiato.

L’ultima sezione della mostra focalizza, attraverso una narrazione intima e coinvolgente, proprio questo rapporto personale e ravvicinato tra i due artisti, una relazione amicale che intorno al 1550, anno della pubblicazione dell’edizione Torrentiniana delle Vite, si intensifica fino a diventare familiare.

A documentare questa amicizia ci sono le lettere autografe inviate tra il 1550 e il 1557 da Michelangelo all’amico caro messer Giorgio. Sono anni di gloria e di sconforto, quando l’anziano Buonarotti riceve la notizia della nascita del nipote, deve affrontare la morte del fedele assistente Urbino, si vergogna degli errori commessi nel cantiere di San Pietro, immagina ancora soluzioni architettoniche audaci, si rammarica di non poter tornare a Firenze, come vorrebbe l’amico Vasari e lo stesso Cosimo I. Le lettere contengono anche tre sonetti, considerati il testamento spirituale dell’artista, tra i quali “Giunto è già il corso della vita mia”, del 19 settembre del 1554, in cui Michelangelo si fa interprete dei suoi amati maestri, Dante e Petrarca, e traduce in versi una sorta di confessione come artista e come uomo avverte di essere giunto quale “fragil barca” al “comune porto” scampando al mare tempestoso della vita. Si aggrappa al legno della Croce, su cui il figlio di Dio è stato sacrificato per redimere l’umanità. Queste tarde carte michelangiolesche, nelle quali troviamo anche alcuni disegni originali, sono un documento di eccezionale valore morale e di altissimo significato spirituale.

Una prima definizione critica delle poesie di Michelangelo si deve a Francesco Berni, che nel 1538 assegnava a quei versi una concretezza di matrice dantesca, fatta di cose e non di vuote parole, e che quindi opponeva la gravitas della Divina Commedia alla pacevolezza dei seguaci di Francesco Petrarca. Dopo il Cinquecento, una delle interpretazioni critiche più significanti si deve al grande scrittore tedesco Thomas Mann che ebbe a definire i testi michelangioleschi “poesia allo stato selvaggio”, evidenziando la forza espressiva di quei versi e l’insofferenza alle restrizioni lessicali e metriche dei fautori, come Pietro Bembo, di un petrarchismo rigido, insuperabile.

Michelangelo fu sperimentatore anche in questo caso, e ricercò una sua formulazione poetica, legata tanto a Petrarca quanto a Dante, con citazioni e riferimenti a Lorenzo il Magnifico e Poliziano, a Cavalcanti e al Pulci, così come alla filosofia neo-platonica, che l’artista aveva potuto conoscere dalla viva voce di Marsilio Ficino. Ricchi di metafore e di contrapposti, anche arditi, i versi ripetono in modi “concettosi” le forme scultoree, caratterizzate fin dalla giovinezza di Michelangelo da una articolazione serpentina, quale indice di una tensione psicologica fortissima, di una aspirazione metafisica veemente e tormentata.

I documenti autografi, e le diverse redazioni, testimoniano la faticosa ricerca di una forma perfetta in cui trasporre e incastonare biografia e vita interiore: la lotta continua contro il richiamo dei sensi, riflessioni artistiche e morali, sentimenti d’amicizia e amorosi, e soprattutto il dipanarsi di una spiritualità cristiana che alla fine dell’esistenza si concentra interamente sul destino umano e sulla vanità del mondo, sul rapporto tra arte e fede, alla ricerca di una comunione mistica con Dio, giudice misericordioso. I tre sonetti indirizzati per lettera al Vasari testimoniano questa fase; sono gli anni in cui Michelangelo ormai anziano lavora alla Pietà Bandini e alla Pietà Rondanini, si dedica all’architettura e al disegno.

Nel sonetto “Giunto è già ‘l corso della vita mia”, che accompagna la lettera inviata a Giorgio Vasari il 19 settembre 1554, Michelangelo parla dell’approssimarsi della morte, “il comune porto”, e della caducità della vita umana, utilizzando l’immagine della “fragile barca”, passata attraverso un mare tempestoso.

Dopo tanti affanni anche l’artista dovrà rendere conto a Dio di quanto fatto (“ogni opra triste e pia”) Riconosce di aver peccato, vittima dei sensi.

Addirittura ammette di come la fantasia appassionata (“affettuosa”) che ha reso l’arte “idol e monarca” fosse carica di errori. Nulla di tutto questo, ormai, vale all’avvicinarsi della doppia morte: una corporale (di cui è certo) e l’altra spirituale (di cui avverte la minaccia). Pittura e scultura non appagano l’artefice, perché la sua anima è tutta rivolta a contemplare Gesù, il Figlio di Dio che sulla croce aprì le braccia per redimere gli uomini.

Nella lettera datata 11 maggio 1555 compaiono ben due sonetti dello stesso tenore, assieme a un’esortazione rivolta da Michelangelo all’ “amico caro”, Vasari, perché tenga presente quali siano i suoi pensieri in quell’estrema fase della sua esistenza. Definisce poi le sue poesie “cosa sciocca”, ma con ciò vuole rinforzare il valore di queste liriche, che valgono anche come ultima confessione dell’artista cristiano.

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