Pensieri stringati
15 Maggio 2016

Numero 18

di Paolo Simonato | 6 min

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Esco di casa.

A differenza di quanto accade normalmente, tra l’intenzione di attivare il mio corpo nella corsa e l’avvio reale dell’esercizio intercorre una frazione di secondo netta, percepibile, come se l’impulso oggi fosse più lento a spostarsi lungo i nervi; e anche una volta partito, più che correre sposto il mio baricentro da un piede all’altro, mantenendo rigidi gli arti.

Per i primi 50 metri mi domando se non sarebbe meglio lasciar perdere, ma so che è sempre così, dopo una gara tirata: i cataboliti e il vero e proprio danno muscolare causato dallo sforzo si fanno sentire e per quanto possa apparire assurdo l’unica terapia è quella di correre ancora, correre sopra il dolore.

D’altra parte è un dolore, come riconosco a me stesso mentre mi avvicino al luogo del mio incontro con Luca, non esente da una sfumatura di compiacimento, come del guerriero che torna vivo da una dura battaglia e che ostenta le ferite eroicamente riportate.

Vedo arrivare Luca dal lato opposto e, a dispetto del largo sorriso con cui mi accoglie, la sua corsa anelastica tradisce il fatto che le sue percezioni corporee non sono molto diverse dalle mie.

Ci salutiamo e ci abbracciamo senza smettere di correre (un’arte che si mette a punto solo dopo anni di esperienza), curiosi di sapere l’uno dall’altro come è andata.

Domenica abbiamo gareggiato in contemporanea e sulla stessa distanza, ma in due posti diversi: lui ha fatto la Stramilano, una delle mezze maratone più antiche d’Italia, io ho fatto la mezza della Corriferrara, la Società di cui faccio orgogliosamente parte.

“Sono contento, è andata bene” mi dice il mio amico “in pratica ho fatto una progressione, sono partito piano e ho aumentato l’andatura ogni 5 chilometri”.

Forse i muscoli si stanno scaldando, forse il piacere della conversazione mette in secondo piano il dolore, fatto sta che mentre passiamo su Piazzale delle Medaglie d’Oro sento che la rigidità delle mie gambe si sta almeno parzialmente sciogliendo e che la mia corsa sta acquisendo una biomeccanica un po’ meno anormale.

“Ma anche tu hai fatto una bella gara…” aggiunge Luca.

Aspetto un po’ a rispondere perché fatico a trovare le parole.

Inizio con un commento vago: “E’ stata una gara strana”.

Luca mi lascia ancora qualche secondo per pensare, o meglio per trovare le parole.

“La gara in sé è andata bene, oltre le mie più rosee aspettative”.

Scivoliamo lungo il pendio che ci conduce su via Porta Mare ed affrontiamo, con fatica, la salitella del torrione.

“Ho deciso di provare a stare con i peace-maker dell’ora e ventiquattro, e ce l’ho fatta. Alla fine ho dovuto stringere i denti, gli ultimi 2 chilometri non ne avevo più, ma ho chiuso in 1 ora, 24 minuti e 12 secondi”.

“Sarai stato contentissimo!”.

“Mentre ormai giunto al traguardo percorrevo Corso Giovecca” rispondo “mi preparavo alla festa, non vedevo l’ora di gustarmi la musica, la confusione, l’allegria che c’è sempre all’arrivo di una gara. Però appena fatta l’ultima curva e giunto in vista del gonfiabile ho avuto la percezione che ci fosse qualcosa che non andava. C’era solo un brusio di sottofondo, gli atleti completavano il loro sforzo quasi nell’indifferenza generale”.

“Come mai?” chiede Luca, che evidentemente ieri non ha letto la cronaca locale.

“Una ragazza era stata male alla fine della camminata non competitiva. Ho visto Massimo Corà, il presidente della Corriferrara, e mi è bastato guardarlo in faccia per capire che era accaduto qualcosa di veramente drammatico. Purtroppo il giorno dopo Sara è morta”.

“Ma tu eri stato bravissimo; ho visto che sei addirittura arrivato secondo di categoria! Non sei stato felice?”

“No, ero molto dispiaciuto, turbato. Anzi, stavo per mettermi a piangere, non riuscivo a pensare ad altro che a quella tragedia”.

Luca tace per qualche metro, e poi mi fa una domanda apparentemente semplicissima.

“Perché?”.

“Come perché?” rispondo un po’ irritato e un po’ scandalizzato “Non riuscivo ad essere felice sapendo che una ragazza di 20 anni era tra la vita e la morte”.

Luca insiste: “Ma perché?”

Ora sono senza parole. Già: perché? Ho preparato questa gara con puntiglio, mi sono allenato con il freddo, la pioggia e il fango; quasi ogni giorno della settimana, per tre mesi, ho fatto ripetute, allenamenti in collina, scatti brevi, e dopo tanti sacrifici e tanta fatica ho raggiunto l’obiettivo che mi ero prefissato… perché non ero contento?

So, anche per esperienza professionale, che le forti reazioni emotive sono sempre suggestive di qualche correlazione intima tra l’accaduto e noi stessi.

Avverto che la domanda indaga su qualcosa di riposto, di profondo, forse di spiacevole. Che ha a che fare, certo, con la triste sorte di Sara. Ma che ha a che fare anche con me.

Corriamo costeggiando Viale Belvedere fino al suo termine, invertiamo la marcia e proseguiamo in direzione opposta.

Capisco che la risposta è semplice, quasi ovvia, e non ha a che vedere con nobili sentimenti di empatia, perché difficilmente l’inconscio funziona in questo modo.

“Beh, l’ho scritto anche sul blog, qualche tempo fa. Credo fosse il Numero 11. Perché corro, mi domandavo. E mi rispondevo: perché ho paura di morire, probabilmente”.

“Lo ricordo bene” dice il mio amico, come per incoraggiarmi a continuare.

“E probabilmente l’altro giorno le mie paure si sono materializzate nella tragica sorte di quella ragazza. La corsa, che è il mezzo che utilizzo per dimostrare a me stesso di essere vivo, diventava causa di morte”.

Penso un po’, poi aggiungo:

“Di più: la mia prestazione mi aveva illuso che allenandomi io potessi correre come ho sempre fatto, come facevo 20 anni fa, come se il tempo non passasse, come se potessi evitare la morte”.

Luca registra un tono deluso nelle mie parole.

“Sembri amareggiato, come mai?”

“Perché non c’era nulla di nobile o altruistico nel mio dolore: piangevo per me, non per lei”.

Anche per lei, sicuramente, e anche per le persone che le volevano bene”.

In fondo non sono sorpreso: sono convinto che anche le azioni o i sentimenti più nobili possano avere motivazioni che moralmente o moralisticamente parlando potremmo definire egoistiche, ma questo non sposta il giudizio positivo che se ne può dare ad un altro livello. Il piano motivazionale, più o meno profondo, non va confuso con quello degli effetti concreti, sociali o relazionali, del nostro modo d’essere e di agire.

Saluto Luca e percorro da solo gli ultimi metri verso casa.

Il dolore, adesso, è cambiato: più caldo, più gestibile, più comprensibile.

Sia il dolore alle gambe che quello morale.

Più che al dolore compiaciuto del guerriero che torna vivo da una dura battaglia e che ostenta le ferite eroicamente riportate assomiglia al dolore del guerriero che torna vivo da una dura battaglia pensando ai compagni che non torneranno più, e che sarebbe meglio la pace.

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