Spettacoli
29 Aprile 2016
E' andato in scena “Me che libero nacqui al carcer danno”, spettacolo del teatro del carcere di Ferrara ispirato alla “Gerusalemme liberata” di Tasso

Attori-detenuti liberano il proprio talento al Teatro comunale

di Redazione | 4 min

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(foto di Marco Caselli Nirmal)

di Federica Pezzoli

Dopo la sfida, a fine giugno, di portare la cittadinanza in carcere, giovedì sera Horacio Czertok, Andrea Amaducci, il Teatro Nucleo e il Coordinamento Teatro Carcere dell’Emilia Romagna hanno affrontato anche quella di portare i detenuti in un vero e proprio spazio teatrale. Sul palco del teatro comunale Claudio Abbado di Ferrara è andato in scena “Me che libero nacqui al carcer danno”: una sfida vinta, anche per gli attori detenuti del teatro della Casa Circondariale di Ferrara.

“Un evento – come lo ha definito Ilse Rusteni, provveditore regionale per l’Emilia Romagna e le Marche, Dipartimento Amministrazione Penitenziaria – frutto di un lavoro culturale, ma che senza dubbio dà esiti anche a livello trattamentale”.

Il lavoro culturale cui ha fatto riferimento la dottoressa Rusteni è il laboratorio biennale, che ha visto impegnati gli attori detenuti del carcere di Ferrara sotto la guida di Horacio Czertok, e il progetto che ha visto coinvolto il Coordinamento Teatro Carcere a livello regionale: sullo stesso soggetto hanno lavorato, infatti, i laboratori teatrali degli istituti di pena di Bologna, Castelfranco Emilia, Ferrara, Forlì, Parma e Reggio Emilia e nelle prossime settimane in tutta la regione saranno presentati i risultati di queste esperienze.

La riflessione della compagnia è partita dal verso di Goethe che dà il titolo al lavoro: “Me che libero nacqui al carcer danno”. Attori detenuti, dunque, che recitano il testo di un altro uomo incarcerato: la “Gerusalemme liberata” di Torquato Tasso. Come se fossero compagni di cella dell’autore, recitano i suoi versi per aiutarlo a combattere la delusione in cui lo ha precipitato la decisione del duca di Ferrara di incarcerarlo; oppure sono i personaggi stessi, che affollano la mente del Tasso solo nella sua cella al Sant’Anna. Ma questo è solo uno dei molteplici livelli di lettura delle sedici ottave che abbiamo visto in scena: il combattimento di Tancredi e Clorinda, attraverso la musica di Claudio Monteverdi, che con questo madrigale segna la nascita dell’opera lirica. Il cavaliere cristiano e la guerriera musulmana, che si sfidano sotto le mura di Gerusalemme. L’essenza del tragico perché Tancredi finirà con l’uccidere ciò che più ama al mondo: la vittoria diventa sconfitta, Clorinda muore, Tancredi vivrà attanagliato dal rimorso.

Ad affrontare la difficile sfida della melodia monteverdiana è Lesther, cubano, cantante di boleros e canzoni popolari, che non sa leggere la musica, ma dialoga con gli archi del Conservatorio Girolamo Frescobaldi di Ferrara, che ha deciso di collaborare al progetto proprio dopo aver sentito la qualità della sua voce.

I versi di Tasso sono recitati da Edin, mentre in sottofondo la batteria e la chitarra suonano la musica originale composta da Federico Fantoni. Edin, che viene dal Montenegro, se ne intende di guerra e di combattimenti. Infine, a incarnare un Tasso a metà fra realtà e allucinazioni è il greco Sotirios Kalazantzis. Le incursioni del vangelo di Matteo e della poesia di Lefter Kuli ci gettano poi in una dimensione senza tempo, passato e presente nello stesso momento: l’uomo da secoli combatte, continua a offendere ciò che gli è più caro, la vita stessa, e la storia di Gerusalemme ne è un drammatico e lacerato esempio. “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono mandati… Gerusalemme, se non cambi strada dritto all’Inferno stai arrivando”.

Horacio Czertok, nell’incontro di presentazione nelle sale del Ridotto, ha definito questo spettacolo “un’avventura”, “un atto d’amore” di questi attori che “sono stranieri come me”, ma “si sono innamorati di questo testo” e hanno voluto rendere omaggio alla poesia e all’opera italiane. “Me che libero nacqui al carcer danno” forse è soprattutto l’apice di un’esperienza umana e attoriale di trasformazione: come Tancredi alla vista dell’amore morto per sua mano, così si trasforma l’attore che lo interpreta attraverso la poesia che gli lavora dentro. Questa è la sfida raccolta dai detenuti attori del progetto di Teatro Carcere: non negare la lotta, il conflitto – brutale e cieco come quello di Tancredi – ma attraversarli e trasformarli. Una sfida vinta, se giovedì anche gli agenti di polizia penitenziaria che li hanno accompagnati fuori dal carcere e che erano in platea si sono trasformate per una sera in spettatori: non erano più lì per sorvegliare, ma per vedere, ascoltare, partecipare.

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