Eventi e cultura
23 Gennaio 2016
Per cinquant'anni Adelmo non ha mai parlato della sua esperienza, ma poi ha deciso che "gli onesti non devono tacere"

Franceschini, il militante internato nei lager parla ai ragazzi della Boiardo

di Redazione | 3 min

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P1180333_mini_miniTra le numerose iniziative organizzate dall’istituto comprensivo “Alda Costa” per celebrare il “Giorno della Memoria” , si inserisce l’incontro avvenuto tra tutte le classi terze della scuola media Boiardo con Adelmo Franceschini, uno dei 650.000 militari italiani internati (Imi) nei lager nazisti e costretti al lavoro coatto per aver rifiutato di combattere nelle file dell’esercito tedesco.

Aveva appena 18 anni quando Adelmo, il 4 ottobre 1943, venne caricato, insieme a 60 persone, su un vagone bestiame. Per 9 giorni e 9 notti rimase chiusi in questo angusto spazio, che venne aperto solo nel momento in cui il treno arrivò a Basdorf, la località della Germania Orientale, sede del campo di internamento, dove Franceschini perderà la propria identità per diventare il numero 46737.

Nel mostrare agli studenti la targhetta con il numero di matricola, il testimone li ha invitati ad osservare come essa sia doppia perché, in caso di morte, probabilità molto elevata, una rimaneva al collo del defunto, l’altra veniva recapitata ai familiari per comunicare il decesso.

Nel campo, la giornata tipo era scandita dall’appello, che poteva durare ore, seguito da una colazione, costituita da un intruglio di acqua colorata. Dopo un tragitto di quattro chilometri a piedi si arrivava ad una fabbrica che produceva missili. Si rimaneva al lavoro per tutta la giornata, con una breve interruzione nel momento in cui veniva distribuita una brodaglia in cui galleggiavano alcuni pezzi di patata. Alla sera si ritornava al campo, si mangiava la povera cena consistente in qualche cucchiaiata di purè accompagnata, a volte, da spezzettino di carne di dubbia provenienza e poi ci si ritirava nelle proprie baracche per trascorrere la notte, stesi nei letti a castello con giacigli di paglia. La fame era il denominatore comune di questi giovani militari e spesso era causa di liti. Adelmo, che all’epoca pesava 35 chili, lo sapeva bene e per evitare problemi, legati ad una maldestra divisione del pane nero tra i sui 12 compagni di baracca, aveva inventato una piccola bilancia con spaghi e legno per dare a tutti la stessa razione. Anche le condizioni igieniche lasciavano molto a desiderare. Per tutto il periodo di internamento, nessuno di loro, ad esempio, ebbe la possibilità di cambiarsi i vestiti, peraltro troppo leggeri per il clima rigido di quella zona.

Liberati il primo maggio del 1945 dai soldati sovietici, per dieci giorni poterono rifornirsi di abiti e di cibo nelle zone limitrofe e fu allora che Adelmo sperimentò come l’esperienza del campo non avesse lasciato traccia di odio dentro di lui. Non ebbe infatti nessuna esitazione a dividere il pane con un gruppo di bambini tedeschi affamati e scalzi, ritenendoli non colpevoli di quanto era successo. Dal momento della liberazione al definitivo ritorno a casa, avvenuto alla fine del mese di settembre, trascorsero alcuni mesi che gli permisero di riprendersi dal punto di vista fisico, recuperando parte del peso perso. Per cinquant’anni non ha mai parlato della sua terribile esperienza, ma poi si è reso conto di come fosse importante trasmettere alle nuove generazioni la storia di un passato doloroso che può ripresentarsi, seppur sotto altre forme, anche nel presente: la conoscenza è infatti un ottimo deterrente per evitare il ripetersi degli stessi errori che tolgono la dignità all’uomo. Di qui l’invito rivolto ai suoi attenti ascoltatori a chiedersi il perché di quanto avviene nel mondo, a sentirsi protagonisti della propria vita senza lasciare che altri ne decidano il destino. La speranza in un futuro migliore è strettamente legata alle capacità individuali e collettive di estirpare l’odio e l’indifferenza, tema quest’ultimo che attualizza la massima di Martin Luther King “Non ho paura della cattiveria dei malvagi, ho paura del silenzio degli onesti”. E con questa citazione, Adelmo Franceschini ha concluso la sua testimonianza di amore per la vita e di fiducia nei giovani.

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