Pensieri stringati
24 Dicembre 2015

Numero 16

di Paolo Simonato | 5 min

Esco di casa.

La nebbia è di quelle d’altri tempi, come quando ero appena arrivato a Ferrara nel 1982, tanto che la fuga dei lampioni gialli si snocciola a fatica fino al fondo della via.

Il vago senso di irrealtà del paesaggio, a differenza di altre volte, mi trasmette una generica e inspiegabile sgradevolezza; ho sempre amato correre in queste condizioni atmosferiche, ma stasera c’è una sottile inquietudine nell’aria, o in me, che non me le fa piacere.

Luca è a Milano, immerso in altre nebbie, suppongo: quindi correrò solo con me stesso. Mi avvio con prudenza, ascoltando il suono delle mie falcate che scandisce il silenzio della strada.

Ho da poco raggiunto la mura e la mia faccia è già bagnata dall’umidità.

Le infinitesimali particelle che fluttuano sospese nell’aria si condensano sulla superfice dei rami degli alberi e formano grosse gocce che, recuperata pesantezza, precipitano picchiettando, restituite seppure in ritardo al loro destino terreno.

Poco dopo mi pare di scorgere, nella oscurità a una dozzina di metri davanti a me, la sagoma di un altro podista che corre nella mia stessa direzione. Capelli lunghi, neri, alto come me ma più magro. “E quello da dove è sbucato?” mi domando.

La figura, non so perché, mi trasmette qualcosa di angosciante, se non addirittura di minaccioso.

In pochi secondi mi accorgo che corre esattamente alla mia stessa velocità e come al solito, per una antica deformazione competitiva, decido che lo devo raggiungere e superare.

Mano a mano che riduco lo spazio tra noi e lo tengo osservato la sensazione di turbamento aumenta, assieme ad un inspiegabile senso di famigliarità.

Quando gli sono a un metro riconosco i miei vecchi pantaloncini anni 80 della Champion, quelli che usavo molto tempo fa.

Lo affianco, e lui mi guarda negli occhi senza sorridere.

Ci guardiamo, mi guardo.

“Sei tu?” gli chiedo continuando a correre, sorpreso di non essere sorpreso.

“Sono io; cioè sono te” mi risponde.

Lo guardo meglio: sono io, molto più giovane.

“Quanti anni hai?” domando, temendo di sapere la risposta.

“Diciassette” mi risponde “e tu?”

“Cinquanta, compiuti il 19 agosto”

“Certo, lo so quando è il mio compleanno” obbietta un po’ infastidito “Che vecchio che sei”.

Provo un senso di vertigine, di irrealtà; ma come in un sogno, accolgo senza giudicare quanto mi sta accadendo. La nebbia è fittissima, ciò che è intorno pare sfumare, restiamo solo noi due, che assurdamente proseguiamo la nostra corsa come se fosse la cosa più normale del mondo.

“Allora, già che ci troviamo qui dimmi almeno qualcosa: se non altro sei riuscito a diventare un giornalista?” la domanda è posta nel tono vagamente accusatorio di chi non ammette risposte negative.

“No, non farai il giornalista” rispondo. “Però terrai un blog su un quotidiano on line” aggiungo, con un tono vagamente autogiustificatorio che tradisce il mio senso di colpa.

“Che cosa?” fa lui, con una smorfia irritata.

“Non importa, avrai tempo per capire”.

“Come sei arrogante” ribatte non senza fare trasparire un certo disprezzo nella voce “e di grazia, che mestiere fai?

“Faccio… farai lo psichiatra” dico cercando di dare la maggiore enfasi possibile al titolo di studio che ho conseguito.

“Lo psichiatra! Questa poi… E come è?”

“Certi mestieri sono come il sesso: molto diversi da come li fantasticavamo. Ma bello, comunque”.

“Non è carino da parte tua parlarmi di sesso. Sai che non ho avuto ancora esperienze al riguardo”.

“Non dovrai portare ancora molta pazienza, se non ricordo male”.

“Se non ricordo male” ripete lui sarcastico “a cinquant’anni non avrai già problemi di memoria! Dimmi almeno come stanno Michele, Chiara, Cristina e papà e mamma…”

Si ferma un istante, un’ombra di preoccupazione gli forma una piccola, neonata ruga sulla fronte: “Ci sono ancora, papà e mamma?”.

“Sì che ci sono ancora; e sia loro che gli altri stanno abbastanza bene, compatibilmente con l’età”.

“Meglio così” taglia corto lui “e tu ti sei sposato? Hai una compagna?”.

“Conoscerai la persona più eccezionale del mondo: quella che potrà farti pensare che vuoi invecchiare con lei”.

“Nientemeno” risponde sarcastico “e non dirmi che ci hai fatto anche dei figli”.

Cerco di rispondere anche parlandogli di me, delle mie, delle nostre sensazioni: “Sperimenterai la più grande rabbia, paura e felicità che si possa sperimentare: diventerai padre”.

“Che modo pomposo di esprimersi, sei indisponente. Un figlio… Mi sembra incredibile. Non voglio figli. Almeno sarà maschio?”

“No, femmina; e sarai contento che sia così”.

Sembra sempre più irritato, infastidito. Sbotta: “A pensarci bene mi sembra impossibile che tu possa veramente essere me… più per l’abissale diversità che ci separa che non per la congetturale impossibilità di questo nostro incontro”.

Paradossalmente, però, proprio nel momento in cui lui esprime questo dubbio, io maturo la certezza opposta: “Sono io, invece, e te lo posso dimostrare”.

“E come?” fa lui in tono di sfida.

“Perché conosco i tuoi pensieri. Un istante fa hai detto ‘congetturale’ in vece di ‘presunta’ perché hai pensato a ‘Poema conjetural’ di Borges, il nostro scrittore preferito.  Che continua a piacerci ancora molto, e che ha anche molto a che fare con questo nostro colloquio”.

Ora è lui ad apparire perplesso: “Il nostro scrittore preferito… allora una cosa in comune ce l’abbiamo ancora”.

“Direi due, per essere precisi” aggiungo.

“E quale sarebbe l’altra?” fa lui, con l’aria di chi domanda se possa esserci un limite al peggio.

“La corsa, ovviamente” rispondo.

“Eh sì, la corsa” constata, e per la prima volta mi sorride. “E allora stiamo zitti, Paolo, e continuiamo a correre”.

“Va bene, Paolo” ribatto, e per la prima volta gli sorrido “stiamo zitti, e continuiamo a correre”.

E così facciamo.

Corriamo per uno, o più di uno, due, tre, cinque, otto, chilometri.

I nostri respiri, i nostri passi sono perfettamente sincronizzati, sono un unisono perfetto.

Così perfetto che i nostri respiri diventano un solo respiro, che i nostri passi diventano un solo passo.

Così perfetto che alla fine percepisco solo il mio respiro, il mio passo.

Così perfetto che alla fine c’è solo il mio respiro, il mio passo.

Mi volto e non ci sono più, non c’è più.

Finalmente sono solo.

Finalmente sono.

Solo.

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