Cronaca
13 Ottobre 2015
Da Israele all’Università di Ferrara per testimoniare che la pace è possibile

All’israeliana Taya e alla palestinese Yasmeen il premio Daniele Po

di Redazione | 4 min

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unnamed (3)di Federica Pezzoli

La nuova escalation di violenza a Gerusalemme e in Cisgiordania ha reso ancora più significativa la scelta di assegnare il premio internazionale Daniele Po 2015, consegnato ogni anno a chi si distingue nella difesa dei diritti umani e della pace, alla palestinese Yasmeen Al Najjar e all’israeliana Taya Govreen Segal.

Entrambe giovanissime, con strumenti diversi lottano per l’affermazione della pace e della giustizia in Israele e Palestina: Jasmin è attiva nei Comitati popolari per la resistenza non violenta ed è stata protagonista, nonostante la disabilità fisica, di una scalata del Kilimangiaro; Taya insieme ad altri giovani attivisti israeliani porta avanti una campagna di boicottaggio della leva obbligatoria e contro la militarizzazione dei propri coetanei. In attesa di ritirare il premio mercoledì pomeriggio, presso la Residenza Municipale, alla presenza del sindaco di Ferrara Tiziano Tagliani e dell’onorevole Luisa Morgantini, ex vicepresidente del Parlamento Europeo con delega alla Palestina, le due ragazze lunedì 12 hanno portato il proprio vissuto personale nell’aula magna del dipartimento di economia e management dell’Università di Ferrara all’incontro “Difesa dei diritti umani e contro la guerra”.

Yasmeen viene da un piccolo villaggio vicino Nablus e nella sua vita deve affrontare una doppia sfida: come palestinese e come disabile. All’età di tre anni, infatti, a causa di un incidente ha perso una gamba e per lei “è iniziata una nuova vita”. L’unico ospedale in cui potersi curare si trova a Gerusalemme, Yasmeen racconta che nel 2007 l’esercito israeliano le ha negato il permesso di uscire dalla Cisgiordania “per sostituire la vecchia protesi con una nuova”, perché “ero considerata un pericolo per il governo: avevo dieci anni”. La giovane palestinese racconta la sua scalata al Kilimangiaro per piantare la bandiera palestinese sulla vetta Uhuru, che nella lingua locale significa “vetta della libertà”: è stato “un viaggio lungo e molto duro, a un certo punto la mia protesi si è rotta, ma io ero determinata perché avevo un messaggio di giustizia, speranza e libertà”. Yasmeen però racconta anche della precarietà della vita quotidiana nel suo villaggio, le cui foto scorrono mente le i parla, con le incursioni dell’esercito e dei coloni degli insediamenti vicini: prima che partissi per venire qui, domenica scorsa, hanno bruciato i nostri ulivi e così quest’anno non riusciremo a fare il raccolto”, “io stessa non ho potuto recarmi all’università perché i check-point intorno al mio villaggio erano tutti chiusi e quindi ho dovuto rimanere a casa”.

“Salve a tutti mi chiamo Taya e sono una degli otto milioni di fortunati che in Israele possono godere dei propri diritti”, non è così per “2,8 milioni di palestinesi che vivono nella West Bank sotto autorità militare, a cui bisogna aggiungerne 1,8 che vivono nella striscia di Gaza”. Taya ammette di aver avuto un’infanzia normale, nella quale le notizie delle violenze attorno a lei arrivavano ogni tanto come qualcosa di lontano. Fino a che non ha compiuto 16 anni e ha partecipato a un campo estivo sulla storia dello Stato d’Israele. Altro momento chiave è stato il viaggio in Polonia, ad Auschwitz, compiuto da molti giovani israeliani. Ma se tanti tornano a casa convinti di doversi difendere a tutti i costi perché non accada mai più, la sua reazione è stata diversa e quando le è arrivata la cartolina dell’esercito (la leva in Israele è obbligatoria sia per i maschi sia per le femmine, ndr) si è chiesta “se fosse morale servire nelle forze armate”. Ecco perché ha deciso di rifiutarsi di partire e per questo ha rischiato di essere arrestata e incarcerata, “come è successo a molti altri miei amici obiettori di coscienza”.

Taya inoltre ha iniziato una campagna contro la militarizzazione dei giovani israeliani e ha instaurato contatti con chi vive nelle zone occupate, “per esempio Sasha: io e lei lottiamo per la stessa causa, ma io non posso entrare a Gaza e lei non può uscire, perciò non possiamo incontrarci”.

“Ha senso mettere allo stesso tavolo un’israeliana e una palestinese con tutto quello che sta succendo?” si è chiesta Alessandra Annoni, docente di diritto internazionale e diritto umanitario presso il dipartimento di giurisprudenza di Unife. La risposta è affermativa perché “Yasmeen e Taya sono la testimonianza di una realtà minoritaria, ma che tuttavia esiste: una minoranza di persone che non si rassegnano all’idea che questo conflitto non si possa risolvere”. E sul significato di quest’iniziativa è tornato anche il vicesindaco e assessore alla cultura e ai giovani del comune di Ferrara, Massimo Maisto: “davanti alle violenze e alle tragedie di Ankara, di Israele e della Siria, allargare le braccia e pensare che sono troppo grandi per noi è l’errore più grosso. Incontri come questo servono per costruire legami e diffondere una cultura di pace che rendano più difficile il lavoro di chi ancora pensa che i problemi si possano risolvere solo con la violenza”.

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