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8 Settembre 2015

Un dentro tanto grande

di Francesca Boari | 5 min

 

1.

“Ecco il mare, qui possiamo dimenticare la città. E’ vero che proprio in questo momento si sente ancora strepitare le campane dell’Ave Maria, è quel sussurro cupo e folle, eppur dolce, al crocicchio del giorno con la notte, ma solo per un istante ancora! Ora tutto tace! Il mare si stende pallido e scintillante, non può dire parola. Il cielo offre il suo terno, muto spettacolo serale con rossi, gialli, verdi colori, non può dire parola. I piccoli scogli e catene di roccia che scendono nel mare, come per trovare il luogo dove si è più soli, non possono dire parola. Questa immensa impossibilità di parlare, che ci coglie all’improvviso, è bella e agghiacciante: ne è gonfio il cuore. O ipocriti di questa muta bellezza! Quanto bene saprebbe parlare, quanto male anche, se volesse! Il nodo della sua lingua e la sua dolorosa felicità nel viso è una malizia per deridere la consonanza del suo sentire!

(F. Nietzsche, Aurora)

Mi specchio e non mi vedo. Non so se ci sono oppure semplicemente appaio in questa giornata di caldo afoso e soffocante in cui il mio corpo appare allo specchio altro da quello che avrei voluto. E quando mai mi hai dato riflesso della realtà che avrei voluto per me e chi amo? Quando avresti potuto restituirmi un sorriso o una lacrima che non fosse già stata scritta sul corpo che abbatto ogni giorno che passa eppure resta a firmare assenza d’amore?

Mi guardo e non mi riconosco. Non sono io. Non sono e basta. Avrei voluto trovare un’ombra al posto di quanto mi restituisce la realtà, avrei voluto abitare in quell’ombra. L’ombra è leggera, sottile, non pesa, non rende conto, non mangia, non dorme, non vigila. E’.

Confondere questa vita pesante in quell’ombra. Un desiderio simile alla morte. Un desiderio che ingombra i miei passi pesanti da quando ero solo una adolescente. E invece mi peso e la bilancia oscilla tra numeri, mi muovo e devo fare i conti con il tempo e lo spazio. Guardo chi ho di fronte e lo confronto con le fotografie costretta a trovare una relazione di senso. Mi occupo di questo spazio senza vivere mai davvero. Entro nel tempo della vita che non ho domandato e lo abito con la pesantezza dell’esser-ci, stretta dentro orari, puntualità, consegne, dovere, dovere e dovere. Mi piace la leggerezza. Mi piace l’insostenibile. Mi piace l’essere. Tolgo le scarpe. Più libera. Tolgo la sottoveste. Sono io, sempre io. E la pelle? Come posso spostare questa pelle e indossare il mio scheletro?

“Passerà”, dicono i medici. Io non voglio che passi. Io voglio amare e gioire. Voglio sentire i profumi del basilico e della menta e pensare alla vita come a un gioco di entusiasmo e piacere. Questo voglio. Lo dico ma anche le mie parole hanno un peso.

“E’ malata, sono cose lunghe, ci vuole tempo”…

Malata un cazzo. Mi fa orrore la vita che ho scelto. Mi fa orrore un marito che mi picchia e mi tiene prigioniera dentro questa casa enorme che non ho scelto così come la vita. Come te. Mi fanno paura le mie figlie che non mi vedono nemmeno. Non sono ombra per loro, magari lo fossi, sono peso, peso e peso. E perciò non mangio per diventare leggera. Non voglio guarire, voglio urlare il mio male. Voglio liberarmi di te. Voglio essere solo me. Il peso che non riuscirò mai a fare oscillare è quello che tu hai aggiunto al mio corpo. Esile, fragile, bella e ingenua, ho creduto un giorno che avrei potuto avere una famiglia perfetta. Non importava con chi. Importava il risultato. Dimostrare. Guardavo invidiosa mio fratello e mia sorella e sentivo che io non sarei mai stata come loro, non avrei avuto la vita che desideravo. In fondo non sono mai stata in grado di disegnarla quella vita. L’ho sempre e solo sognata.

Intorno a me sempre e solo corpi, svuotati d’anima, corpi soltanto, appoggiato su di loro un nome e un cognome, come i miei, per de-finire la vita. Prigionieri senza occhi, senza sguardo, senza orizzonte. Briciole di vita senza affanno. Soffoco, non posso guardare oltre. Mi calpestano la vita e io cerco ombre. Mi picchia e io non ho la forza di reagire perché forse è quello che voglio. I miei lamenti tormentosi e muti, la mia furiosa paura, il terrore che dipinge il mio viso. Sei una bestia, cammini a carponi, mi chino per sollevarti dall’inutile che investe le nostre abitudini di coppia mai scritta in nessun registro. Hai orecchie inutili che non possono sentire il dolore che nutre le mie giornate accartocciate una sull’altra senza nemmeno un carta sottile a separarle, distinguerle.

Questa prigione che mi hai costruito non ha via d’uscita, nemmeno una magica apertura da cui poter spiccare il volo. Le finestre sono muri di indifferenza e odio. Immagino, sogno una realtà variopinta dentro un’anima senza colori. Irrigidita dal male che taccio per paura, timbrata dal tuo cognome mi sento come carne da macello in attesa di essere abbattuta. Una volta per sempre.

Uccidimi, toglimi anche l’ultimo respiro, chiudi questi occhi che supplicano amore e non riescono a vedere che morte. Chiudi le mie orecchie per sempre e seppelisci questo corpo pesante nel cemento di questa casa. Dimenticami. Dimenticatemi tutti. Voglio trascinare l’ultima croce senza sentire il peso. Guardo i passanti, questi manichini che si muovono verso direzioni di cui solo loro sanno. Sono passanti e basta, nient’altro, dentro i miei occhi che non riconoscono più la realtà. E se uno di loro mi stesse osservando? Perché ogni mattino ritrovo intorno a me le stesse facce? Non voglio essere vista da nessuno. Che nessuno mi guardi e si metta intenzionalmente davanti a me. Lasciate che mi tolga la pelle, che mi sfiguri il viso. Tu ci provi ogni giorno ma non fai che aggiungere segni e presenze. La tua violenza è macigno, incubo, assillo. Non posso diventare trasparente dentro questo odio che esterni senza tregua. Pietrificata cerco la forza di una reazione. Lo spazio in cui mi lacero è afono, mi rapisce il respiro e la forza. L’ultima forza. Ali rapaci mi hanno derubata, svuotata, lacerata. Porto i segni.

 

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