Pensieri stringati
15 Agosto 2015

Numero 14

di Paolo Simonato | 5 min

Esco di casa.

Attraverso il breve vialetto del giardino del condominio dove abito con i miei e chiudo il cancello alle spalle.

Inizio a correre costeggiando la curva Est del Paolo Mazza. Dopo la buona stagione sotto la guida di Mister Galeone che l’altr’anno l’ha portata al quarto posto della C1, la Spal ha concluso questo campionato 1985/86 in modo piuttosto deludente, e mi domando come andrà l’anno prossimo.

Luglio si prodiga di caldo e umidità, ma l’atmosfera soffocante non mi dà fastidio; sto bene, mi sento in forma, e soprattutto non vedevo l’ora di distaccarmi per un po’ da quei maledetti libri di anatomia patologica, da qualche mese aperti notte e giorno sulla mia scrivania.

Nel silenzio della strada deserta scivolo accanto ai giardini della mutua con quel minimo di circospezione dettata dalla nomea non lusinghiera della zona e lascio via Cassoli girando a destra per via Ortigara.

Sentendo le mie gambe sciogliersi progressivamente, passo davanti alla Caserma dei Vigili del Fuoco alla mia destra e il Tennis Club Giardino alla mia sinistra, attraverso viale Cavour e dopo poco mi porto sul tratto alberato di mura che costeggia viale Belvedere.

Allungo la falcata, lascio che il mio respiro aumenti di conseguenza il ritmo, e mi compiaccio della prontezza della risposta del mio cuore e dei miei muscoli.

Sono un buon podista, potrei essere un ottimo podista. Tutto quel tempo sui libri di medicina, le lezioni, le esercitazioni, gli esami, non mi consentono di allenarmi e di esprimermi al meglio.

Forse potrei essere un grande podista, se solo potessi prepararmi adeguatamente.

Forse invece non sarò un buon medico, ammesso che riesca mai a laurearmi.

L’esame di anatomia patologica, in particolare, è proprio uno scoglio grande, forse insormontabile.

Un programma estesissimo, molto mnemonico, e un professore, Nenci, noto per la sua intransigenza. Ma soprattutto una materia, un oggetto di studio che è all’opposto dei miei interessi e aspirazioni: vetrini istologici, organi sezionati, corpi squarciati, autopsie: è la medicina della morte, dello sguardo sulla morte. Non c’è, mi sembra, la relazione d’aiuto, non c’è il contatto con il paziente.

Avrò fatto bene, mi domando giunto alla Casa del Boia, a scegliere questa carriera?

Mentre sono immerso in queste lugubri considerazioni, avverto alle mie spalle una falcata ritmica e incalzante in avvicinamento. Dopo poche decine di metri intravedo con la coda dell’occhio, alla mia sinistra, la sagoma di un altro podista che mi si affianca per superarmi.

E’ snello, più o meno della mia stazza; per il caldo si è tolto la canottiera e la tiene arrotolata in una mano, correndo a petto nudo.

Non lo degno nemmeno di uno sguardo: quelli che corrono a petto nudo, da sempre, mi stanno antipatici, mi sembra che si vogliano dare arie da grandi atleti. Decido immediatamente che, caschi il mondo, questo zotico non mi supererà.

Con un piccolo aumento di andatura resto affiancato a lui; è un passo per me sostenuto, ma che posso reggere. Nemmeno lui mi guarda o mi rivolge la parola: il guanto della sfida è lanciato e corriamo, elastici e filanti, affiancati, vicinissimi ma ignorandoci ostentatamente a vicenda.

Mantiene il suo passo per un 200 metri, poi aumenta il ritmo: me ne accorgo perché per un istante guadagna una mezza lunghezza su di me, che ricucio abbastanza tempestivamente.

Non avevo detto a me stesso, poco fa, di essere un ottimo podista? Non pensavo che forse, allenandomi adeguatamente, potrei essere un campione? Non posso certo mollare così!

Il mio respiro è affannoso, ansante, ma tengo duro.

Dopo altri 200 metri lui allunga ancora; stavolta mi disunisco, mulino nell’aria con le braccia, perdo quasi contatto, sono al massimo della velocità che riesco a imprimere alle mie gambe; ma riesco a riprenderlo, a farmi ancora vedere al suo fianco.

Mi domando fin dove posso arrivare, la mia autonomia a questa andatura è limitatissima, ma decido ancora di non mollare, di resistere fin che potrò, o fino a quando, maledizione, cederà lui.

A questo punto incrociamo un paio di ragazze che corrono in direzione opposta alla nostra; il mio nemico le saluta con una disinvoltura che io in questo momento sono ben lontano dal possedere e loro ricambiano sorridendo: “Ciao Orlando!”.

Allora finalmente volto il capo di 90 gradi alla mia sinistra e con un misto di stupore, costernazione e vergogna mi rendo conto che sto cercando di battere Orlando Pizzolato, il miglior podista italiano del momento, fresco vincitore per la seconda volta consecutiva della Maratona di New York. Da qualche settimana si è trasferito a Ferrara, per farsi allenare dal Professor Lenzi.

Subitaneamente sento che tutte le mie residue energie si azzerano: le gambe mi si infiacchiscono, non ho più fiato. Quasi mi fermo, inizio a corricchiare, e guardo malinconicamente il mio inarrivabile avversario guadagnare con irrisoria facilità decine e decine di metri su di me, rimpicciolirsi nella distanza, con una corsa semplice, elegante, composta, che io non potrei mai avere nemmeno andando molto più piano.

Sconfitto, esausto, non termino nemmeno il tratto fino a Porta Mare; mi giro su me stesso, faccio dietro front e mi avvio verso casa.

Mentre caracollo senza stile la mia unica speranza è che Pizzolato nel frattempo non faccia in tempo a terminare il tratto che si era prefisso di percorrere e a tornare indietro, sorpassandomi un’altra volta: sarebbe troppo umiliante. Senza che lo voglia, mi si affacciano alla mente le ultime righe del celeberrimo Bollettino della Vittoria di Diaz: “i resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza”. Una retorica esaltante, se vista dalla parte del vincitore.

“Già qui?” mi fa mia madre vedendomi rientrare ben prima di quanto le avessi preannunciato “hai fatto il nuovo record del giro delle mura, oggi!”.

“Sì, sì” rispondo, non senza una certa esitazione nella voce.

“Cioè no” mi correggo aprendo il frigo “è che ho pensato che è meglio se studio ancora un po’…”.

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