Pensieri stringati
29 Giugno 2015

Numero 13

di Paolo Simonato | 5 min

Esco di casa.

La percezione dell’aria primaverile è così netta, inaggirabile, piacevole, da soverchiare ogni tentativo di resistere allo scivolamento nella banalità e nella retorica: mi arrendo alla considerazione che è la vita che riprende, ciclica e forte, ad ogni anno.

Compartecipa di questa esaltazione anche il mio apparato muscolare, che oggi mi sembra responsivo ed elastico come non lo avvertivo da tempo.

Ancora prima di raggiungere l’alberone vedo Luca, anche lui in una versione particolarmente sorridente; ci salutiamo da lontano, ci abbracciamo senza smettere di correre (un’arte che si mette a punto solo dopo anni di esperienza) e ci dirigiamo, sempre correndo sulle mura, verso la Prospettiva.

Tre metri sotto di noi Ferrara si crogiola sorniona al sole come un gatto che fa le fusa acciambellato sulle gambe di una bella ragazza.

Giunti alla Prospettiva come sempre, meccanicamente, ci volgiamo alla nostra sinistra per contemplare la fuga ottica di Corso Giovecca.

“Non hanno ancora ripristinato i pinnacoli sopra la porta” commento io osservando il profilo tuttora ‘calvo’ del monumento.

“… e ormai ne è passato di tempo dal terremoto” aggiunge Luca.

“Beh, è stato nel 2012” ricordo “la prima scossa forte deve essere stata il 19… no, aspetta, il 20 maggio”.

“Cioè oggi” fa Luca “non è il 20 oggi?”.

A nessuno di noi due era venuto in mente che oggi è l’anniversario del sisma che, tre anni fa, ha gravemente colpito il nostro territorio, la nostra città, le nostre case. Un evento così traumatico che ognuno si ricorda molto bene dove era e cosa ha fatto quel giorno, o meglio quella notte.

A questo punto è pressoché inevitabile, lasciata alle nostre spalle la farmacia Comunale di Porta Mare, che il tema della nostra corsa diventi quindi questo: cosa hai fatto la notte tra il 19 e il 20 maggio 2012.

“Io ero a Bolzano” rammento, e rammentando quasi rivivo quella notte “eravamo andati lì, io, Mascia e Milla, per fare una vacanza in bicicletta in Trentino. Ci sentivamo eccitati per l’inizio della nostra avventura, avevamo cercato di spiegarla alla bambina, che era piccolissima e che avrebbe dovuto adattarsi a stare nel carrettino trainato dalla bici di Mascia. Ci eravamo addormentati da poco; inizialmente pensai che fosse Mascia che si agitava nel letto, e le dissi di stare ferma. Poi capii. La svegliai e le dissi: ‘hai sentito? Un terremoto’. ‘Come un terremoto?’ fece lei. ‘Milla?’. Milla continuava a dormire. ‘Sta bene, non preoccuparti: l’abbiamo sentito forte perché siamo al quarto piano, non deve essere stata una scossa molto violenta. Magari da qualche altra parte si sarà sentita per bene…’. E ci riaddormentammo”.

Magari da qualche altra parte si sarà sentita per bene” medita Luca.

“La mattina dopo, facendo colazione, con una fetta di pane imburrato in mano, alzo gli occhi sulla TV accesa nella sala pranzo dell’albergo e leggo il titolo che scorre sotto immagini di macerie e gente disperata: ‘Terremoto nel ferrarese’. ‘Qualche altra parte’ era casa mia”.

Dalla Casa del Boia la fuga visiva di Ercole d’Este verso il castello è sempre dritta e rassicurante; ora tocca a Luca parlare.

“Io ero a casa qui in Porta Mare” inizia “ma non ho molto da raccontare. Erano passate da poco le quattro, il tremito fu violento, ma ancora più violento fu il rumore. Sentii ballare le tegole sul tetto, ma lo capii solo successivamente: inizialmente, in una fase intermedia tra il sonno e la veglia, percepii un torrente in piena che scorreva sopra la mia testa mentre dalle profondità della terra si levava un boato tetro, inquietante. Sullo sfondo di quelle sensazioni emerse poi la voce di mia madre che mi chiamava, già più lucida di me, riportandomi a quella attualità che era vera.

Corsi verso camera sua e scendemmo assieme in cucina. Restammo lì un po’, parlammo, bevemmo un bicchiere d’acqua, come se fosse stata una specie di terapia. Ma poi tornò il sonno, ci salutammo e rientrammo nelle nostre stanze a dormire”.

“Tutto qui?” chiedo io “molti mi hanno raccontato di essere usciti in strada, di avere telefonato ai Vigili del Fuoco…”.

“Cosa ti posso dire” risponde lui quasi giustificandosi “forse non ci eravamo davvero resi conto della gravità dell’accaduto. La mattina dopo ho inforcato la bicicletta e sono uscito per fare colazione al bar. Ho vagato per la città, ho visto i danni, i calcinacci, le transenne, le crepe sui palazzi, i monumenti danneggiati, le chiese chiuse; e la gente spaventata, eccitata, ansiosa, col bisogno di parlare, di riunirsi, di vedersi, di raccontarsi, di guardare. E ho capito la gravità di quello che era successo; solo allora sono stato male”.

“Insomma anche tu, pur essendo qui, inizialmente hai negato l’accaduto, o lo hai minimizzato”.

“Ma sì, un po’ come hai fatto tu dicendo: ’magari da qualche altra parte si sarà sentita per bene’. Chissà perché…”.

“Ognuno utilizza i suoi personali meccanismi psichici di difesa per allontanare l’angoscia; si può quasi affermare che il nostro carattere dipende essenzialmente dai tipi di meccanismi di difesa che utilizziamo più frequentemente. Rimozione, spostamento, negazione. Di fronte a una catastrofe così grande l’angoscia della morte si presenta con forza, a livello conscio o inconscio. Per affrontarla noi siamo arrivati alla conclusione che la morte…”

“E’ sempre una cosa che succede a qualcun altro, da qualche altra parte” conclude Luca.

Ridiamo per il piacere di riscontrare, ancora una volta, che il nostro correre assieme è sempre, anche e soprattutto, un ragionare assieme; che siamo capaci di farlo, in altre parole che siamo buoni amici.

Ma è una risata breve, che lascia spazio a un lungo silenzio.

In realtà mi sento improvvisamente più stanco; mi sembra che le mie energie potranno essere a malapena sufficienti per rientrare a casa, anche se avendo appena fatto la solita inversione ad U alla catena in fondo a Viale Belvedere manca poco meno della metà del percorso.

“Forse per il nostro inconscio è una difesa necessaria” chiosa Luca “forse potremo impazzire se non fosse così”.

“Penso proprio di sì” rispondo dopo un po’, mentre ci riavviciniamo all’alberone.

Tre metri sotto di noi Ferrara si crogiola sorniona al sole come un gatto che fa le fusa acciambellato sulle gambe di un vecchio.

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