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3 Maggio 2015
Mostra "Nuova oggettività" organizzata dal Los Angeles Country Museum of Art in collaborazione con la Fondazione Musei Civici di Venezia e con 24 Ore Cultura

L’arte in Germania ai tempi della Repubblica di Weimar

di Redazione | 5 min

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Secondo la diagnosi di Antonio Gramsci, la breve vita della Repubblica di Weimar (1919-33) indica più di ogni altro periodo del XX secolo che “La crisi consiste precisamente nel fatto che mentre il vecchio muore il nuovo non è ancora nato. Nell’interregno appare una grande varietà di sintomi morbosi”.

I primi cinque anni della nuova repubblica furono segnati dal perpetuo scompiglio economico e politico, della disorganizzazione e disillusione sociale. Dopo il 1924 una relativa stabilità dell’economia diede un minimo (e illusorio) senso di solidità alla cultura democratica della Repubblica, finchè fu di nuovo infranto nel 1929 con la crisi economica mondiale e definitivamente distrutto nel 1933 con l’adesione della Germania al fascismo e l’avvento di Hitler.

Con Nuova Oggettività. Arte in Germania al tempo della Repubblica di Weimar, 1919-1933 si è inaugurata per la prima volta in Italia e negli Stati Uniti una mostra di grande respiro dedicata ai tempi più rappresentativi delle tendenze artistiche dominanti della Repubblica di Weimar. Organizzata dal Los Angeles Country Museum of Art (Lacma) in collaborazione con la Fondazione Musei Civici di Venezia e con 24 Ore Cultura, l’esposizione è composta da centoquaranta opere tra dipinti, fotografie e incisioni di quarantatre artisti.

La mostra a Museo Correr, aperta fino al 30 agosto 2015, è a cura di Stephanie Barron, mentre l’ampio catalogo edito da Sole 24 Ore Cultura è a cura di Sabine Eckmann e della stessa Stephanie Barron.

Accanto a figure di primo piano come Otto Dix, Gorge Groz, Christian Schad, August Sander e Max Beckman, i cui percorsi eterogenei sono essenziali per comprendere la modernità dell’arte tedesca, l’esposizione consente di scoprire nomi meno noti al grande pubblico, in un allestimento diviso in cinque sezioni. Il percorso espositivo riserva una particolare attenzione al confronto tra pittura e fotografia, offrendo la rara opportunità di esaminare le analogie e le differenze tra i diversi ambiti espressivi del movimento.

La tensione psichica che s’innervava nelle opere dell’anteguerra sembra cedere a un composto raccoglimento. Per gli artisti della “Neue Sachlichkeit” non si tratta di un ritorno, del resto impossibile, a una contemplazione serena degli eventi dell’uomo, ma di una ricomposizione interiore di quegli eventi, che accentua l’ossessività della raffigurazione, spingendola assai spesso al limite dell’allucinazione.

E poiché il mondo era stato percorso dalla follia, e l’omicidio di massa era divenuto norma quotidiana, agli artisti più sensibili al rapporto con la tremenda realtà vissuta, non restava che dare a quella follia – e alle sue conseguenze – una lucida immagine.

L’orrore della carneficina trova magistrale rappresentazione in un opera (purtroppo persa e ricordata in catalogo) che è La trincea di Otto Dix (1821 – 1969). Un orribile spettacolo di morte che sembra ricollegarsi a Bosch e alla Pittura Metafisica.

Così la cartella di incisioni dal titolo La Guerra (1924) ispirata ai Disastri della guerra (1820) di Goya, è considerata una delle più esaurienti e accurate rappresentazioni degli orrori del primo conflitto mondiale.

Il lugubre pathos che investe l’opera sembra lo stesso che pervade l’ultima lirica di Gorge Trakl, la visione allucinanta della sua estrema esperienza, ch’egli non ha saputo dominare e con lui scenderà nella tomba: “…abbraccia la notte – guerrieri moribondi, il selvaggio lamento – delle loro bocche infrante. – Ma calmo si raccoglie sui prati – rossa nuvola, dove abita un nume cruccioso, – il sangue versato, freschezza lunare; – tutte strade sboccano in nera putritudine”.

Mentre Georg Groz persegue una violenta satira sociale, intesa a denunciare i responsabili del disastro, da una diversa ma non opposta accezione della realtà muove Max Beckmann (1884-1950). Quando egli parla di “realtà trascendente” indica una visione sostenuta da una potente carica simbologia che spesso le conferisce un oscuro tono di apologo. In mostra Il sogno (1921) è un’immagine emblematica degli strascichi del conflitto, è una delle sue opere più rappresentative degli anni di Weimar. Intitolato in origine Il manicomio, il dipinto mostra un gruppo di figure fisicamente o psicologicamente distorte e pressate in uno spazio angusto: un medicante cieco, un carcerato con le mani mozze, uno storpio in costume di Arlecchino, una prostituta che urina e una bambina con un pupazzo Punch.

L’uso della distorsione crea uno spazio isolato e claustrofobico, evocando un’atmosfera opprimente di angoscia e disgregazione sociale che spesso accompagna le rappresentazioni della metropoli nel dopoguerra.

Il marciapiede offre all’artista un campionario umano ancor più squallido che nel passato. Come appaiono lontane e irreali le parole di Novalis: “ La donna è il simbolo della bontà e della bellezza: l’uomo il simbolo della verità e della giustizia”. Ma come appaiono lontane anche le eleganti “cocottes” colte da Kirchener nella Berlino d’anteguerra. Altre creature percorrono adesso il marciapiede: le prostitute per fame, sorvegliate dal lenone. Le dipinge Otto Dix: Omicidio a sfondo sessuale; Prostituta e ferito di guerra – Due vittime del capitalismo; Stupro; ecc…

In questa atmosfera disperata, i più tentano di stordirsi, di evadere dalla realtà, di dimenticare ciò che è stato – la guerra, la trincea, gli stenti, i pidocchi, la morte. Si balla il fox-trot e lo shimmy per dimenticare la fame l’isterismo, l’ansia e la bramosia, il panico e il terrore.

È in questo clima che maturano le opere di Groz e di Dix, ma anche di Hans Finsler, Georg Schrimpf, Heinrich Maria Davringhausen, Carl Grossberg, Anne Biermann ed altri ancora.

Di fronte allo sfacelo, con maggiore insistenza che nel passato, riaffiora dagli strati più fondi dell’essere l’antico terrore dello spirito romantico tedesco. Una nuova forma di espressione, il cinema, lo rivela in modo esemplare. Il tema goethiano di Faust viene ripreso da Galeen con “Lo studente di Praga” in chiave d’angoscia senza redenzione; l’orrore del sovrannaturale permea Nosferatu; il delitto e la follia compongono il pathos di Il dottor Mabuse di Frinz Lang e investono Il gabinetto del dottor Calidari di Robert Wiene.

Anche il linguaggio cinematografico fa ricorso a un vocabolario di simboli svuotati in molti casi delle significazioni consuete. Essi diventano i simboli dell’inferno terrestre, di un mondo ancora sovrastato dalla morte.

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