Lettere al Direttore
31 Gennaio 2015

Il ricordo del campo di concentramento di Dachau 1961

di Redazione | 5 min

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Nella foto, da sinistra Romualdo Caselli, Bergamini e Trapella

Nella foto, da sinistra Romualdo Caselli, Bergamini e Trapella

A pochi giorni dal settantesimo anniversario dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, il ricordo del giornalista codigorese Vincenzo Trapella, in visita nel 1961 al campo tedesco di Dachau.

Un giorno del 1961, era arrivato alla Giunta comunale di Codigoro, l’invito “Francorosso per partecipare ad un pellegrinaggio europeo al campo di concentramento di Dachau.

Il 22 di giugno, la delegazione, formata dal Sindaco, Eros Ronconi, dall’assessore Romualdo Caselli (entrambi PCI), dal consigliere di maggioranza Vincenzo Trapella (PSI) e dal consigliere di minoranza, Antonio Brandolini (DC), più l’ex deportato codigorese Adone B. il quale ha chiesto di aggregarsi a sue spese in quanto inquilino, negli ultimi mesi di guerra, del suddetto campo.

Verso mezzogiorno assieme a tanti altri siamo saliti sul treno del pellegrinaggio, a Verona, destinazione Monaco di Baviera. Il mattino presto del giorno dopo, 23 giugno, dall’hotel siamo ritornati alla stazione ferroviaria di Monaco dove una grande fila di “pellegrini” stava formando un corteo diretto a Dachau, da lì distante 8 chilometri. Ogni nazione aveva un’avanguardia di bandiere, compresa quella degli Ex Deportati a strisce blu orizzontali su fondo bianco. Rosario Fucile, per 22 mesi rinchiuso a Dachau, è il primo della fila degli italiani con stendardo innalzato. Antonio Di Pasquale, anch’egli deportato, ci informa: “Siamo in cinquemila!” Numerosa la partecipazione femminile, con tante giovani ragazze. 
Dopo un lungo cammino, con ai lati campagna aperta e agglomerati di case, la vicinanza del campo viene annunciata da una recinzione e da una cabina elettrica per l’alta tensione da trasmettere alle reti di cinta. Davanti ai cancelli, un militare americano con la sua garitta a fianco, fa buona guardia. Cancelli, ho detto e non un accesso buio e cavernoso sul fianco di una tetra scogliera dove l’iscrizione sopra l’apertura diceva: “Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate”. E nemmeno la lunga fila di gente dietro di me è composta di dannati per un cerchio dell’inferno di Dante. Arriviamo, invece, in un grande spazio ricco di fiori e di verde su cui spicca il Monumento al Deportato dove vengono deposte migliaia di corone. Sotto al deportato in bronzo, la scritta recita: “per l’onore dei morti e rimanga per i vivi”. Il presidente del Comitato Internazionale Dachau, dott. Marsault, con a fianco una traduttrice, pronuncia il suo discorso: “Lo spirito del comitato internazionale Dachau è essenzialmente quello che chiamano lo spirito della “Lagerstrasse”; il suo scopo è soprattutto la conservazione e la compilazione di un memoriale riguardante il Campo. In virtù di questo spirito, il CIS non ha voluto lasciare il suo pensiero ad alcuno straniero ne ad alcuna formazione politica o religiosa. Ha voluto che tutti gli anziani del Campo, con la maschera della comune sofferenza, siano uniti nel ricordo dei compagni dispersi.”

A gruppetti, i pellegrini, iniziano la visita vera e propria del Campo. In fondo tra un lungo agglomerato di baracche, disposte orizzontalmente in diverse file, ci “rapisce” la vista di un camino, ovvero, una ciminiera. Ed ecco la sala dei forni crematori. “Nell’ultimo periodo – mi racconta Adone B. – vennero costruiti un forno a due “bocche” ed altri due (come quello in foto, ndr) per far scomparire le tracce al più presto possibile. Ad un tratto si sente un urlo. Una donna sulla quarantina, è a terra con la schiena appoggiata ad un forno mono. Gli occhiali da vista a lenti molto spesse, le giacciono in grembo, la sottana alzata lascia vedere le cosce e la faccia è una maschera di lacrime. Il petto si alza e si abbassa in continui singulti. ” E’ l’Anna, dal Veneto – esclama un’altra voce femminile – qui si è fatta quattro mesi, mi diceva. L’hanno rastrellata i tedeschi durante la ritirata”. 
Cambia la scena. Poco dopo entriamo nelle sale delle docce trasformate, quasi subito dopo i primi internamenti, nelle camere a gas ed i corpi, privi di vita, venivano ammucchiati, dai deportati con uno strumento a cucchiaio dalla parte della testa e a tenaglia, dalla parte dei piedi, in una fossa comune. La fossa l’abbiamo individuata in un bel giardino fiorito grazie ad una lapide marmorea che diceva: “Tomba di mille sconosciuti”. Interessante è stato visitare il museo costruito all’interno di un ampio salone, dove in apposite teche erano stati raccolti, nerbo di bue, vestiti dalle righe grigie, simbologia del campo per gli ebrei, i kapo, e fotografie di Hitler e compagni.

Dopo la pausa pranzo, nel primo pomeriggio si è tenuto un convegno dove i rappresentanti delle varie delegazioni hanno espresso i loro pensieri in tutte le lingue che venivano tradotte da Jacqueline Frey, braccio destro del dott. Marsault, presidente del Comitato. A sera, alcuni autobus sono pronti fuori dai cancelli per riportarci a Monaco. Man mano che le corriere sono passate all’appello dei capi gruppo, partono. Il sole è quasi sulla linea del tramonto ma noi seduti da tempo sul pullman, non partiamo. Manca uno. Lo assicura una donna che dice di essere la di lui moglie. “Bruno non c’è, ma arriverà, sono certa.” Ma Bruno, non arriva. Scendiamo, io e Adone B. che il tedesco lo parla abbastanza bene e ci sarà di grande utilità in quest’imprevisto ci aggiungiamo al gruppo delle ricerche. Scende la sera, si fa buio ma di Bruno nessuna traccia. Ma chi è Bruno? Ce lo racconta la moglie. “E’ stato a Dachau fino alla fine della guerra. Era addetto ad “arpionare” i morti quotidiani. Un tedesco, gli ordina di mettere in forno un tizio, lì a terra. Lui, che in quel lavoro era diventato un esperto, si rifiuta e dice al nazista: “Non vedi che è ancora vivo?”. Quello alza il fucile lo prende dalla canna e sferra un colpo alla testa dello sfortunato Bruno. Si è svegliato – conclude la moglie – in un Ospedale di Monaco dove gli avevano chiuso il cranio sfondato, con una calotta d”argento”. Folgorato, mi avvicino alla signora, ormai disperata e le chiedo: “Per caso, Bruno le ha mai detto in quale baracca era?”. “K 54”, risponde. Lo abbiamo trovato nel suo letto a castello, baracca K, n. 54.

Vincenzo Trapella

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