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23 Dicembre 2014
Alla basilica vicentina la mostra dedicata ai notturni dagli Egizi al Novecento

Un viaggio ‘serale’ da Tutankamon a Van Gogh

di Redazione | 6 min

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Quando il cielo sopra di me formicola di innumerevoli stelle, quando il vento soffia nello spazio immenso, quando l’onda si frange mugghiando nella notte profonda, quando l’etere arrossisce al di sopra della foresta e il sole rischiara il mondo, dei vapori si alzano nella valle e io mi stendo sull’erba tra gocce di rugiada scintillanti, ogni foglia, ogni filo d’erba deborda di vita, la terra vive e si agita attorno a me, tutto risuona assieme in un solo accordo; allora la mia anima grida di gioia e plana nello spazio incommensurabile tutt’intorno; non esiste più alto né basso, non esiste più tempo, non esiste più inizio né fine, sento il soffio vivente di Dio che tiene in mano il mondo e in cui ogni cosa viva si muove” affermana Philipp Otto Runge in una lettera del 10 maggio 1802.

Molti tra i più grandi artisti si sono misurati con il tema della notte; moltissimi di loro, e i loro capolavori, sono dal 24 dicembre al 2 giugno nella mostra “Tutankamen, Caravaggio, Van Gogh. La sera e i notturni dagli Egizi al Novecento”, curata da Marco Goldin nella basilica Palladiana a Vicenza. Sono 113 opere provenienti da trenta musei di tutto il mondo: vi figurano prestiti eccezionali come uno dei preziosissimi Ritratti del Fayum, giunto da Boston, o il “Campo innevato con aratro, verso sera (da Millet)” di Van Gogh, arrivato da Amsterdam. Nella mostra della basilica vicentina ci si può trovare a tu per tu con Caravaggio, e la sua opera strepitosa “Marta e Maria Maddalena” e il suo commovente “Narciso”; ma nel percorso si incontrano artisti quali: Monet, Millet, Corot, Pissaro, Zurbaràn, El Greco, Music e Rothko, Gaugin, Wytth fino a Paul Klee, Hopper, Kiefer, Van Gogh, Giorgine.

Ogni mostra di Marco Goldin è un frammento di autobiografia e di vissuto personale per immagini ed è inutile cercare in tutti questi capolavori il rigore di un impianto scientifico o la filologia negli accostamenti tra opere. Il tema è la notte – la notte in senso reale e figurato – e l’arco temporale è vertiginoso, di oltre tre millenni. Il percorso infatti prende le mosse dagli Egizi, un popolo a cui la notte, specie nell’accezione funeraria, doveva apparire amica. In Egitto, nella Valle dei Templi o altrove, la notte nell’eterno è come proseguire la vita. Un viaggio che non ha fine, e nel quale sempre si porta quanto era appartenuto in vita. La statuaria egiziana assegna un valore quasi magico alle immagini del defunto, nel momento in cui egli è partente, colui che si accinge a viaggiare a lungo dentro la notte.

Se le maschere mortuarie o le effigi più antiche dei faraoni, in accordo con i linguaggi artistici delle diverse epoche, mostrano ora fattezze morbide e naturalistiche, come nella testa di Menkaura (il Macerino della terza piramide di Giza), che regnò tra il 2472 a.C., ora invece lineamenti ieratici, intoccati dalle umane emozioni, come nella testa di Tutankamon, 1336 – 1327 a.C., la contaminazione dell’arte egiziana con quella romana, dai primi secoli dopo Cristo fino alla fine dell’Impero, dà vita nelle maschere funerarie dipinte su tavoletta “del Fayum” a toccanti ritratti del defunto, raffigurato come un vivente. Il giovane soggetto del ritratto in mostra, ha una folta capigliatura nera e riccia, una densa barba e baffi; la testa è lievemente volta verso destra. Il suo abbigliamento è costituito da una tunica bianca (chitone) con un motivo a triangoli intorno al collo e da un mantello violaceo (clamide) fissato sulla spalla destra con una fibbia in cui è incastrata una pietra rossa. Che poi la mostra abbandoni l’antichità e scavalcando i secoli si immerga nell’arte dell’ età “moderna”, non deve stupire: il curatore,ama questo modo di comporre percorsi, per raggiungere “suggestioni” ed “emozione”.

L’incipit della sezione “moderna” è affidata al celebre e misterioso Doppio ritratto di Giorgine. La luce radente che cade obliquamente dall’alto investe con intensa chiarezza la mano sinistra del giovane in primo piano, posata sul parapetto, che mostra un frutto riconoscibile come un melangolo, simbolo dell’amore. Il giovane è elegantemente abbigliato, il suo sguardo è immerso nell’ombra e poggia il capo sulla mano nell’atteggiamento tipico del malinconico. La luce rischiara invece e porta l’attenzione sul volto più pieno e sensuale del secondo giovane, meno raffinato nelle fattezze e nell’abbigliamento, che volge lo sguardo franco ma pensieroso oltre le sue spalle, verso l’osservatore. Qui la notte che assorbe le due figure ha poco o nulla di naturalistico, perché intreccia inscindibilmente immagine, poesia e simboli. Allo stesso modo le notti delle altre opere in mostra sono ora notti di preghiera (la Santa Caterina d’Alessandria, di Tiziano), ora di adorazione del Bambino (nella notte di Natale), ora di estasi (il San Francesco di Caravaggio e quello di Gentileschi), ora di conversione (la Samaritana al pozzo di Annibale Carracci e quello di Marta e Maria di Caravaggio).

La notte irrompe però anche nella sua veste naturale, soprattutto nella pittura dell’800, quando con il Romanticismo i notturni diventano protagonisti, soggetto del quadro, e si caricano di nuove valenze emozionali. Ne sono interpreti Caspar David Friedrich e William Turner, entrambi presenti in mostra con molte opere. Seguono Corot e gli americani Winslow Homer, Thomas Cole, F E. Church e, ancora Monet, Pissaro, Cézanne, van Gogh, Goguin, interpreti del crepuscolo della notte, spesso illuminata dalla luna o dalle stelle o dal primo albeggiare. A loro, il curatore, affianca cantori della notte del ‘900 come Hopper e poi Kiefer e Andrew Wyeth, le cui notti evocano sentimenti di maggior desolazione, inquietudini e solitudine dell’uomo.

È singolare, ma rimane nella sfera del possibile, che esperienze apparentemente distanti tra loro ci comunichino la medesima tensione, fino a che ci accorgiamo che l’incisione della luce notturna a New York su un muro di Hopper corrisponde al tassello di nero che Rothko pone su una delle superfici, che si leggono nella loro quasi esagerata frontalità. Ma è con Van Gogh che la mostra si chiude: Sentiero di notte in Provenza, 1890, è l’ultima opera dipinta a Santin-Rémy, prima di trasferirsi a Auvers, dove sarebbe morto (suicida) di lì a poco. Nel fra tempo Van Gogh aveva già descritto l’opera con entusiasmo a Goguin, in una lettera: “Laggiù ho lasciato ancora un cipresso con una stella, un ultimo tentativo – un cielo notturno con la luna tenue, niente più che una gobba sottile che sale dall’ombra scura della terra, una stella con un bagliore eccessivo, per non dire, una dolce luce rosa e verde nel cielo oltremare solcato da nuvole”. Con questo notturno sinfonico, che è un canto d’amore alla luce della Provenza, Van Gogh si congeda dalla vita.

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